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The Walking Dead, o la geometria del paradosso

::::MAGAZINE::::

The danger is doubled and the pleasures are few
Where the rain never falls and the sun never shines
Merle Travis, Dark as a Dungeon

The Walking Dead è una zombie-saga scritta da Robert Kirkman, pubblicata in Italia da Saldapress. L’autore del Kentucky, classe 1980, sta ancora cavalcando l’onda di un successo clamoroso che, tra l’altro, l’ha portato a entrare a far parte della famiglia Marvel e di “prenotare” un adattamento televisivo dei suoi morti viventi, a cura di Frank Darabont. L’intenzione di Kirkman è quella di scrivere una saga-fiume; Saldapress, su licenza Image comics, è arrivata al 6° volume.

TWD si affaccia sul panorama editoriale italiano in un momento in cui l’immagine degli zombie sta tornando allo scoperto, uscendo da quell’underground che, tuttavia, non gli ha mai negato asilo. Nella letteratura, tra i più recenti portatori di questo virus narrativo possiamo citare Seth Grahame-Smith con Orgoglio e pregiudizio e zombie (Nord), David Wellington con la sua trilogia mondadoriana e Max Brooks con il Manuale per sopravvivere agli zombi (Einaudi) e World War Z (Cooper). Nell’ambito di questo panorama, Kirkman si ritaglia uno spazio tutto suo, lontano com’è dalla versione “pop” – con tutto quello che implica – di Wellington o dall’irriverenza spregiudicata di Grahame-Smith, che col suo mash-up (parodia e contaminazione) ha letteralmente fatto a pezzi il classico di Jane Austen. Tra gli autori citati, forse il più vicino allo spirito dei “morti che camminano” è Brooks, sia per la precisione con cui si viene calati nello scenario, sia per la caratura e il valore oggettivo dell’opera. Nonostante in World War Z l’apocalisse evolva in un quadro geopolitico vasto e complesso, e quindi su un piano opposto a TWD in cui la catastrofe è più personale e intimista, Brooks non ha mancato di dichiarare pubblicamente il proprio apprezzamento verso Kirkman il quale, però, non ha ricambiato i complimenti: a quanto pare non ha mai letto i libri del figlio dell’istrionico Mel e non è intenzionato a farlo. Un semplice atto di presunzione? Possibile. Strategie di marketing editoriale? Improbabile. Di sicuro, c’è un manifesto orgoglio dell’autore per un prodotto editoriale molto ben curato e di successo.

La trama ruota intorno a una vera e propria odissea, quella dell’agente di polizia Grimes che, al risveglio dal coma, si trova in un mondo infestato dagli zombi. Già dal primo numero si unisce a un gruppo di sopravvissuti e a loro lega il proprio destino, nella lotta quotidiana della vita contro la non-morte. Nonostante il pretesto esile, le avventure di Grimes sono di uno spessore notevole. Il successo della serie, in buona sostanza, è meritato e le ragioni non dipendono solo dall’ambientazione, dallo sviluppo del plot e dalla grande attenzione rivolta alla psicologia dei personaggi. C’è sicuramente altro, delle peculiarità che forse non balzano subito agli occhi del lettore.

Robert Kirkman, con l’assistenza di Tony Moore e Charlie Adlard, si distacca dalla “tradizione”, trasversale a tanti media e forme, fondata da George A. Romero, cui comunque resta profondamente legato dal proposito di “speculare attorno al mostro”. Nel 1968, con Night of the Living Dead, il regista americano si trova fra le mani una vera e propria bomba: da piccola produzione a basso budget, massacrata dalla critica e rifiutata dalle sale e dai drive-in, la pellicola diventa un vero e proprio cult, facendosi portatore di messaggi e concetti perfettamente in linea con i Sixties della controcultura e della contestazione, come la disgregazione della famiglia, l’antirazzismo e l’opposizione al controllo dall’alto. Nei film successivi, Romero ha via via aumentato sulle spalle dei suoi morti viventi il “carico” di critica sociale, facendolo diventare sempre più una metafora della condizione umana. Nella situazione attuale, lo zombi classista e rivoluzionario di Romero – una figura cioè che incarna lo spirito di riscatto delle lower classes, dei perseguitati e dei reietti in genere – ci appare una creatura fuori dal tempo e fuori contesto. Kirkman e soci riattualizzano i mostri dal cervello spento, concentrandone tutto il potenziale speculativo sui paradossi generati da un mondo da loro infestato e ridotto allo stremo, devastato fin dentro le fondamenta della società civile. Mentre infuria “l’epidemia Z”, al centro dell’attenzione torna l’essere umano, l’abitante “al di qua” della frontiera della morte. Gli zombie, almeno stando a quanto ci lascia intendere l’autore in questi primi numeri, restano dei revenant senz’anima, dei muti esecutori della più tragica delle sinfonie: la danza macabra della morte. In questo senso, “Noi siamo i morti viventi!”, l’urlo disperato di Grimes alla fine di La forza del desiderio (4° volume) è più di un semplice e “romeriano” ribaltamento di ruoli: è terrore puro, archetipico, una vera e propria sepoltura prematura. È guardare la morte in faccia.

Il più grande punto di forza di The Walking Dead, sta quindi in quella che potremmo definire come una geometria del paradosso: un elemento strutturale e narrativo (i personaggi si trovano di continuo in situazioni paradossali, come cercare di rifarsi una vita sicura e tranquilla in un carcere; Volume 3, Al sicuro dietro le sbarre) ma soprattutto una chiave di lettura che permette di entrare, alla lettera, nelle viscere della storia. Ogni geometria che si rispetti ha i propri teoremi e ogni argomento trattato costituisce, in questo senso, un paradigma scritto dall’animale uomo con lo spasmo eccessivo del suo raziocinio.

L’amore, per esempio, che nelle relazioni tra i personaggi si spoglia di ogni sovrastruttura romantica. I legami sentimentali appaiono freddi e precari, se non disperati. Per esempio, la moglie di Grimes, col marito in coma su un letto d’ospedale, intreccia una relazione adultera per l’umana paura della solitudine e della morte: come ci si può immaginare a sopravvivere da soli in un mondo dove i morti camminano? Anche i registri che governano la formulazione di pensieri e convinzioni strutturate saltano come birilli: lo stesso Grimes, un poliziotto con comprovata fede nella legge, si abbandona a una deriva in cui il senso della giustizia diventa molto personale, tanto da portarlo a uccidere persone con la stessa facilità con la quale spacca i crani degli zombi. Catastrofi psichiche che forse sarebbero piaciute a J.G. Ballard: da questo punto di vista, le volute della nostra corteccia non sono esattamente una passeggiata al luna park, benché imbevute di belle speranze e buoni sentimenti.

Tuttavia, la geometria del paradosso che governa questa soap-zombie-opera non genera nessun gioco di prestigio, nessun divertissement fine a se stesso. Blaise Pascal, nemico giurato del “divertimento”, scriveva: “Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno deciso di non pensarci per rendersi felici”. Non potrebbe esserci nulla di più lontano dalla storia di Kirkman, esempio di letteratura d’evasione che diverte raccontandoci qualcosa che, così fedelmente descritto, non è per nulla divertente. In questo non c’è niente di morboso. La parola “divertire” proviene dal latino devertere, deviare, allontanarsi. In Walking Dead, tanto più ci si allontana dalla realtà, quanto più ci si avvicina (dovrebbe essere lo scopo di gran parte della letteratura di genere, o no?). Gettandoci nella mischia con un manipolo di personaggi in questo psicodramma apocalittico, l’autore ci rende partecipi di un esperimento in cui crediamo di essere semplici spettatori, facendoci sospettare di essere anche noi sulla ruota a ballare insieme al ratto da laboratorio.

Un esempio di questo radicamento nel reale si manifesta fin dalle origini. Origini non letterarie, ma geografiche. Le disavventure dell’agente Grimes partono da Cynthiana, cittadina di quel Kentucky che ha dato i natali a Robert Kirkman, uno stato compreso nell’Appalachia, una regione che si estende dai confini sudovest dello stato di New York e scende giù, fino all’Alabama, al Mississippi e alla Georgia; una provincia di quegli States sconosciuti che non arriva alle nostre orecchie e ai nostri occhi, e che si è guadagnata il triste appellativo di “Terzo Mondo d’America”. Depressione economica e disoccupazione portano a condizioni estremamente precarie e a una lotta per la sopravvivenza quotidiana. Facile che la mente di un ragazzo nato sulle rive di un simile fiume di disperazione abbia nutrito la propria fantasia di questo humus.

“Per quello che posso dire, le cose vanno male, come sono sempre andate, del resto”. Parole che potrebbe pronunciare un qualsiasi personaggio di The Walking Dead, ma che invece sono di Randy Daniels, disoccupato appalachiano intervistato dal New York Times nel 1990. Sono passati quasi venti anni e, a quanto pare, le cose in quella regione non sono migliorate. Quello che sta accadendo al resto del mondo, crisi economica compresa, non fa che rafforzare la lucidità di questo fumetto. Dalla regione al pianeta intero, dal particolare all’universale, si snoda una lotta per la sopravvivenza che è più di un videogioco sparatutto, ma una battaglia costante in cui siamo sull’orlo di un game over tombale, definitivo: “This hollow was our whole world. You can't just forget it and walk away”.