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Ultimi giorni

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In un racconto scritto per l’evento L’anno del contatto: alieni a Roma, curato lo scorso luglio da Francesco Gatti per Rainews 24, Giovanni De Matteo porta in scena il primo contatto con una civiltà aliena dalla prospettiva di un’invasione silenziosa, giunta a uno stadio avanzato di assimilazione del pianeta Terra. Ha ancora senso resistere in un mondo martoriato da contagi memetici che incitano all’autoannientamento collettivo? La risposta in questa scheggia narrativa, in diretta dall’orlo del baratro.

La chiamata dei Servizi non fu una sorpresa. Com’era prevedibile mi dissero di tenere la bocca chiusa, mi diedero l’indirizzo e si premurarono di assicurarmi che ogni mio passo sarebbe stato seguito da un loro agente.
Accettai, e nemmeno quella fu una sorpresa.
Scesi alla fermata Policlinico della Linea B e proseguii a piedi sotto la pioggerella di marzo. Camminai fino all’indirizzo dell’appuntamento. Ad attendermi trovai una Mercedes scura e una giovane donna imperturbabile. Mentre mi si faceva incontro, gli edifici del quartiere Coppedè, con le loro architetture stravaganti, le guglie e i frontoni ricercati, divennero ancora più spettrali di quanto fossero solitamente.
La donna dei Servizi disse: – Lei è lo scienziato che lavorava con l’Ospite.
Annuii, come in risposta a una domanda che non era stata formulata. “E lei è il loro agente” pensai.
Mi guidò verso la residenza protetta. Ipnotizzato dai suoi passi secchi e regolari sull’asfalto, pensai al posto in cui ci trovavamo. I Servizi non avrebbero potuto scegliere un posto più appropriato. Il palazzo era altrettanto elegante di quelli che lo attorniavano, anonimo nella sua bizzarra bellezza. Un giardino di agavi e buganvillee lo separava dalla strada, addolcendo la barriera di mattoni e ferro battuto che murava il bordo del marciapiede.
Mi chiesi com’era cambiata. Cos’era diventata? Quel dilemma mi inseguiva da mesi, da quando tutta la storia era cominciata, ma dopo l’invito era diventata la questione centrale delle mie giornate e delle mie notti. Non dormivo ormai da tre giorni, pensando a cosa avrei trovato ad attendermi.
Il portone di legno massiccio si richiuse pesantemente dietro di noi. Una luce crepuscolare penetrava dai finestroni che si allungavano sopra l’ampia scalinata. Si respirava l’atmosfera di una cattedrale gotica. La mia guida mi condusse su per le scale, attraverso quella luminescenza soffusa e ultraterrena, fino al secondo piano.
– Le piace guardare di fuori, le strade che scivolano nella sera – mi spiegò l’agente, e io mi affrettai a riconoscere in quel vezzo tracce dell’antico carattere della donna che avevo conosciuto e con cui avevo condiviso la decifrazione del Segnale. “La più grande impresa dell’umanità”, com’era stata annunciata dai giornali. La nostra maledizione, come s’era rivelata nella realtà.
Lei sedeva al buio. I miei occhi trovarono la sua sagoma contro la luce tenue che scivolava nel salone da un’alta vetrata. L’ombra di quel reticolo si spezzava contro il suo corpo immobile e proseguiva poi sul pavimento lastricato di marmo.
– Sono felice di rivederti – disse appena ebbi messo piede nella stanza. La voce era identica a come la ricordavo. Fu forse questo a sconcertarmi di più: mai e poi mai mi sarei aspettato da lei le parole che seguirono.
La donna dei Servizi si fece discretamente da parte, scivolando nell’ombra fino a confondersi con la parete alla mia sinistra. Quando i passi tacquero, continuai ad avvertire il suo sguardo vigile puntato contro la mia schiena, non meno efficace come deterrente di una Sig Sauer.
Ma cosa avrei potuto fare? Dove sarei potuto scappare? Le immagini del Circo Massimo trasformato in un campo di concentramento mi dilaniavano le retine, dove si erano incistate dal momento in cui avevo guardato i video-pirata diffusi dai ribelli, prima che venissero fatti sparire insieme a chi si era arrischiato a metterli in rete.
La voce nell’ombra proseguì. – Pensavo da tempo di proporti questo incontro. Ma non potevamo permetterci un passo falso. Dovevamo aspettare il momento adatto per muoverci. Sono sicura che capirai.
Non risposi – non ce n’era motivo – e trattenni ogni cenno di reazione. Ma avevo colto d’istinto le implicazioni di quel modo di parlare, di quelle oscillazioni tra la dimensione personale e un orizzonte collettivo per me ancora ignoto, alieno. Il rigore del mio corpo parlò per me. Fuori una raffica di vento spinse la pioggia contro le finestre. Nel crepitio delle gocce, pesanti come lacrime, i rivoli d’acqua che scorrevano sul vetro cambiarono percorso e mossero la penombra.
– Le cose vanno fatte con estrema cautela. Non possiamo rinunciare alla sicurezza. La Situazione ci impone la massima prudenza.
– La stessa che hai dimostrato tu – dissi. – Quando hai elaborato i loro schemi e messo in funzione il Transceiver.
– Se sapessi quello che mi è stato dato di conoscere, capiresti che in tutta questa storia nessuno di noi ha mai davvero avuto una possibilità di scelta.
– Siamo tutti strumenti nelle mani del destino, allora…
– Di qualcosa più grande, sì – confermò lei, prendendo le mie parole alla lettera. – Questo vale almeno per noi.
– Perché hai voluto vedermi? – la incalzai.
Le parole mi uscirono di getto. In quel momento non sapevo se sentirmi più frustrato perché non mi era toccata la sua stessa sorte, oppure perché lei adesso sembrava volermi coinvolgere nella storia. Non ne avevo bisogno, non ora. Non dopo avere sperato a ogni nuova incursione che l’arrivo delle Squadre di Rinormalizzazione mi risparmiasse e procrastinasse il mio turno, nell’incubo costante della prigionia, della Cattedrale e del Trattamento.
Fu allora che lei si voltò nella mia direzione e per la prima volta mi guardò con gli occhi che conoscevo. Allungò la destra verso di me. Nel palmo, una pillola, incolore nella luce sbiadita che penetrava da fuori.
Un lampo investì la finestra come un flash al magnesio e mi riscosse dallo stato di rapimento in cui ero sprofondato.
Avrei dovuto immaginarlo, fin dall’inizio.
Dissi: – Non sono stati allestiti per il Trattamento, i campi di raccolta e le Cattedrali? Cosa vuoi fare, abbreviare l’agonia della mia attesa?
– C’è una guerra, in corso – rispose lei. La sua voce era ferma, gli occhi rimasero impassibili anche quando il boato del tuono riempì la stanza. – Ma non è quella che immaginate voi. I ribelli di cui parlano i media per loro sono come solletico, questo ormai dovresti saperlo. La vera guerra, la stiamo combattendo noi, dall’interno delle forze di occupazione.
Istintivamente, mi voltai a cercare nell’ombra la presenza della mia guida dei Servizi.
– Non preoccuparti di lei – mi disse. – È una dei nostri. Ne abbiamo molti, infiltrati nei reparti di sicurezza. Ma pochi nelle posizioni politiche che contano. Il Governo Federale di Emergenza è ancora saldamente nelle loro mani. Per questo dobbiamo muoverci con prudenza.
– Non riesco a crederci. Se ho capito bene la situazione, mi stai chiedendo di unirmi a voi… – La scrutai in attesa di una reazione che tardò ad arrivare. – Come puoi pretendere che creda alla storia della guerra segreta?
Loro sono venuti fin qui per scontare l’inferno. È a questo che serve il Trattamento: hanno bisogno dei corpi per soffrire ed estinguere nella pena fisica le loro colpe. – I muscoli del suo viso si contrassero per un secondo. Quando l’ombra passò, concluse: – I nostri corpi.
– E tu saresti una dei loro giudici e carnefici. Ti ritrovi in questo ruolo, dopo avergli venduto l’umanità intera?
– Amano la simbologia, è vero. Più è ricca più sembrano apprezzarne la stratificazione sulla realtà. Non è casuale la scelta delle città in cui hanno insediato i quartieri generali dell’Occupazione.
Le quattro capitali del GoFedEm: Varanasi, La Mecca, Gerusalemme, Roma. I quattro luoghi della santità della vecchia civiltà umana, ora schiacciata sotto il tallone di ferro di invasori piombati dallo spazio.
Lei disse: – E andranno fino in fondo. La Trasmigrazione avrà fine solo quando anche l’ultimo di noi avrà scontato la sua pena.
– Siamo davvero il loro inferno? – Quell’idea mi lasciava interdetto, incapace di articolare una risposta, tanto mi risultava grottesca e poco plausibile.
– E la Terra il loro Oltretomba. Il loro Settimo Cerchio, nella Trasmigrazione che li sta portando da un pianeta al successivo, man mano che celebrano il rito dell’estinzione sulla scala della catastrofe globale.
– Se è vero quello che dici, questi a cui stiamo assistendo sarebbero solo i preparativi per il Gran Finale…
Non rispose, ma non avrebbe potuto darmi una conferma più appropriata del silenzio, di fronte all’immensità dell’orrore che andava prendendo forma nei miei pensieri.
– Sta a te decidere da quale parte stare – concluse.
Presi la pillola dal suo palmo. Il continuo passare dalla prima persona alla terza, lo spirito di immedesimazione e il simultaneo tentativo di estraniazione dall’invasione che aveva trasformato la Terra in un inferno alieno, l’altalenante riconoscersi nell’umanità a cui era appartenuta un tempo e l’attimo successivo nella specie aliena che l’aveva soggiogata, mi diedero da pensare ai conflitti che dovevano essere in corso dentro di lei. Sul campo della sua personalità era in atto una battaglia forse meno letale di quella che ci attendeva, ma non per questo meno difficile da combattere.
– Cosa c’è qui dentro?
– Il costrutto di personalità del loro Avversario. È sintetizzato con lo stesso procedimento chimico che mi ha portato qui. Non sarà come subire il Trattamento, con il conseguente azzeramento della personalità. Come nel mio caso, ti lascerà uno spazio di autonomia. È quello di cui ha bisogno, per muoversi “come un pesce nello stagno”, per citare uno dei vostri antichi strateghi. Sarai il suo vettore, se deciderai di assumerla.
– Il suo vettore, finché non deciderà di avere bruciato la copertura – estrapolai dalla sua rivelazione. – E quando non avrà più bisogno di me, mi lascerà indietro. Passerà al prossimo. Proprio come sta facendo adesso con te.
I suoi occhi rimasero immobili. Doveva avere ormai avuto il tempo necessario per assorbire il colpo di quella verità. Quando parlò, lo fece con il tono calmo che aveva conservato per tutta la durata dell’incontro. – È in ballo un destino più grande del nostro – disse. – Più grande del mio, del tuo e di quello di ogni singolo uomo o donna sulla Terra. È solo questione di tempo, ormai. Dipende da te.
Uscii dal salone e mi lasciai dietro le sue parole mentre scendevo le scale. L’agente dei Servizi non mi seguì. Tirai il pesante portone di legno e mi lasciai abbracciare dalla pioggia, diventata ormai insistente e violenta. Un temporale primaverile in prima regola batteva il giardino con le sue piante e i suoi fiori e spazzava la strada poco più in là.
Feci scattare il cancello e accelerai il passo. Non mi accorsi nemmeno di essermi messo a correre, le scarpe che sollevavano schizzi dai rigagnoli che attraversavano il marciapiede.
Pensai al Circo Massimo, agli stadi di Buenos Aires e Santiago, ai campi profughi del New Mexico e della Striscia di Gaza e a quelli di prigionia di Vorkuta e Phnom Penh, a quelli che avevo visto nei filmati clandestini come a quelli di cui avevo sentito solo parlare, con la stessa leggerezza con cui si può parlare di una leggenda metropolitana. Pensai alle Cattedrali e ai riti che si compivano all’interno delle loro mura, al Trattamento che stava trasformando la popolazione mondiale nel vettore di una civiltà aliena dedita al massacro e alla distruzione con un fervore religioso che nemmeno l’umanità aveva mai conosciuto. Un gioco che costringeva gli invasori a impossessarsi dei corpi ospiti per ripetere sempre la stessa scena madre, in una tragedia infinita, in onda a ciclo continuo sulle frequenze di un Segnale alieno alla deriva per gli spazi siderali.
Mi fermai, incapace di capire da cosa stessi davvero scappando. Se da loro – impresa impossibile – oppure dalle mie responsabilità – impresa del tutto vana. Sotto la pioggia, ansimante, pensai a tutto il tempo che avevo sprecato nell’illusione che quanto accadeva intorno a me non mi riguardasse. Mi vergognai per la mia meschinità, per tutto il tempo perso chiudendo gli occhi e fingendo che non stesse succedendo niente, che niente fosse cambiato.
La pasticca nella mia mano si stava sciogliendo sotto la pioggia. Aveva ragione lei, a dire che ormai era solo una questione di tempo. Non era più tempo di aspettare il mio turno per il Trattamento, nella lotteria della Rinormalizzazione.
Mi gettai la pillola in bocca e la mandai giù.

E adesso sono qui, che vi parlo dal quartier generale della Resistenza della Terza Guerra Mondiale. Una guerra invisibile, combattuta fuori dal circo mediatico, sul campo di battaglia delle vostre coscienze. Vi chiedo di fidarvi di me come io mi sono fidato di lei. Non ci rimane molto tempo. Le porte dell’inferno sono spalancate e lo resteranno finché l’invasione non sarà ultimata. E allora batterà l’ultimo rintocco. Per tutti noi.
Per questo vi trasmetto il mio racconto. E con esso gli schemi che fummo in grado di estrarre dal Segnale. La quasi totalità dell’informazione codificata nel messaggio ricevuto dalle stelle riguardava il progetto per la costruzione del Transceiver. È stato quello a portarli qui, tra noi. La nostra dannazione. Ma nel flusso di dati era compresa anche una speranza, criptata in una formula chimica. Un composto di complessità sconosciuta. È stato quello a portare qui l’Avversario, a darci una possibilità di resistenza e di sopravvivenza.
Siete liberi di non credermi. Ma se vi fidate, queste sono le mie istruzioni per sintetizzare il composto.
Assumetelo. E resistete.

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