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La mappa del futuro: uno sguardo alla fantascienza dal 1984 ad oggi

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Cyberpunk, distopie, new space opera, viaggi nel tempo e postumanesimo.

Questo articolo è stato scritto nel 2012 ed è originariamente apparso a puntate sul blog di Daniele Barbieri, nell'ambito di un dossier sulla fantascienza. L'ho ripreso successivamente per Next, dove è in corso di pubblicazione nella versione qui presentata. La prima parte è stata pubblicata nel 2013 sull'Iterazione 18, la seconda e ultima sarà ospitata sul prossimo numero della rivista. Lo ripropongo in questa sede per consentirne la lettura a tutti quanti fossero interessati a considerarlo in sede di votazione per il Premio Italia, e per questo lascio inalterati quelli che potrebbero sembrare eventualmente degli anacronismi. - g/X

1. Premessa

La fantascienza degli ultimi trent’anni offre un panorama variegato, in continuo adattamento sotto la spinta di forze tettoniche e agenti atmosferici. Dal sottosuolo la New Wave ha continuato a esercitare una pressione benefica, come dimostrano gli esiti migliori del cyberpunk, con strascichi che si estendono fino al recentissimo filone postumanista, mentre i venti del mondo reale – alimentati soprattutto dal ritmo del progresso – hanno plasmato l’immaginario degli autori, vincolandolo all’evoluzione tecnologica che ha modificato e continua a plasmare di anno in anno il nostro modo di vivere (si pensi, solo per farsi un’idea, alla diffusione ormai interstiziale di internet, all’integrazione tra dispositivi mobili e rete, ai primi esperimenti di augmented reality).
La sensibilità cyberpunk, se vogliamo, è il fiume carsico che attraversa il territorio letterario di questi anni. Sgorgato nella prima metà degli anni ’80, ha seguito un percorso di superficie per un decennio, per poi inabissarsi nella prima metà dei ’90. Bruce Sterling, riconosciuto come il teorico del movimento, ne decretava la fine nel 1991 in un ideale passaggio di testimone, auspicandone la rigenerazione per mano della nuova leva di autori cresciuti sotto l’influsso del cyberpunk. La sua sensibilità non è scomparsa nel vuoto, si è semplicemente aperta un varco sotterraneo, continuando ad esercitare la sua azione dal sottosuolo. A dimostrarlo è tutta l’esperienza magmatica del postcyberpunk, che ha a sua volta alimentato l’emersione del postumanesimo: non un movimento di autori come era stato in prevalenza il cyberpunk, ma piuttosto una costellazione di opere e titoli che tracciano una mappa stellare del nostro futuro.
Rispetto all’esperienza della New Wave, che si era rivolta in prevalenza a un pubblico di fascia alta, aperto all’innovazione e agli sperimentalismi che proliferarono in quella stagione così creativa e audace, bisogna dire che negli ultimi decenni la science fiction ha saputo anche recuperare e valorizzare la sua originaria vocazione popolare. In virtù delle sue caratteristiche intrinseche, il cyberpunk è stato capace di instaurare un fruttuoso dialogo con gli operatori delle nuove tecnologie, dando voce e fungendo da cassa di risonanza per le loro ansie e speranze. Ma tutta la fantascienza contemporanea è riuscita a intercettare i gusti di una fascia potenzialmente vastissima di fruitori, che spazia dal mondo dei videogiochi al pubblico cinematografico e televisivo, come dimostra il background dei prodotti culturali che hanno scalato le classifiche di vendita nei settori citati (tre casi emblematici molto vicini a noi: il franchise di Mass Effect tra i videogame, il campione d’incassi nelle sale del 2009-10 Avatar, la popolarissima serie TV Battlestar Galactica). Le potenzialità della science fiction sembrano ormai avere ottenuto un riconoscimento pressoché unanime come forma espressiva adatta ai tempi che corrono, veicolo idoneo sia che si voglia fare dell’intrattenimento di qualità sia che si vogliano invece proporre riflessioni più impegnate o politicizzate.
In questa nostra panoramica ci concentreremo sulla fantascienza letteraria. Compilare un best of è impresa rischiosa, specie se si vuol prendere in esame una stagione non ancora conclusa. Non si possono considerare le opere più significative degli ultimi anni come dei fossili: l’importanza di un’opera si misura in fondo proprio dal suo essere ancora vitale e influente a distanza di anni dalla sua prima pubblicazione. Consideriamo piuttosto questo ciclo di articoli come una perlustrazione del territorio e un’identificazione dei rilievi e delle strutture naturali di maggiore interesse per potenziali turisti del futuro.
Con una duplice avvertenza.
In primo luogo: ho deciso di non limitarmi alle opere per cui potevo fare affidamento su un’esperienza di prima mano. Per fornire uno spaccato più aderente all’immagine del genere emersa in questi anni, ho dovuto accettare il compromesso di includere in questa rassegna anche alcuni titoli (per fortuna una percentuale minore sul complesso delle opere citate) che non ho ancora avuto modo di leggere. In questi casi (ma non solo) Wikipedia, il Catalogo Vegetti, i siti e le riviste di settore (Delos SF, SfSite.com, Tor.com) mi sono venuti in soccorso. Come mi fa notare Salvatore Proietti (fonte inesauribile di spunti, che devo ringraziare sia per il soggetto della panoramica che per il continuo confronto, che non ha mai fatto mancare in fase di stesura e revisione), anche questa è una prova della ricchezza prodotta dalla fantascienza di questi anni, capace di porre una sfida insormontabile anche ai lettori meglio intenzionati che se ne fossero prefissi uno studio esaustivo: la varietà di titoli rende l’impresa a dir poco ardua.
In secondo luogo: per ragioni pratiche, limiteremo il punto di vista alle opere uscite in Italia, tralasciando lavori pur importanti che non hanno tuttavia ricevuto il riconoscimento di una pubblicazione nel nostro paese (uno strappo alla regola per le serie, dove segnaleremo anche cicli eventualmente editi solo in parte). La panoramica parte dagli inizi degli anni ’80 e la scelta del 1984 per il titolo è simbolica, legata sia al capolavoro di George Orwell che alla data di pubblicazione di un certo numero di titoli di spicco (come vedremo), ma soprattutto di Neuromancer, il romanzo di William Gibson che ha segnato uno spartiacque nella storia del genere.

2. 1984: sulle tracce di Neuromante

L’opera che più di tutte contribuì a rinnovare gli schemi del racconto di fantascienza, rivelando la carica rivoluzionaria delle intuizioni della New Wave (Samuel R. Delany e J.G. Ballard su tutti) esce nell’anno più significativo che si sarebbe potuto immaginare. Agli inizi degli anni ’80, dopo promettenti prove nel racconto, William Gibson incontra l’editor Terry Carr che gli propone la stesura di un romanzo per una nuova collana che si appresta a dirigere per la Ace Books. Si tratta degli Ace Science Fiction Specials, che proprio Carr aveva curato a partire dal 1968 fino al 1971, realizzando una delle esperienze editoriali più incisive nella fantascienza del periodo: dieci dei diciannove titoli giunti in finale al premio Nebula nel triennio 1969-71 provengono dalla collana, che si impose nelle preferenze dei giurati in due occasioni su tre. Dopo una seconda incarnazione a metà anni ’70, priva però dell’apporto di Carr, nel 1984 l’editor torna al timone e la collana rivive in una terza serie, destinata a presentare in edizioni paperback esclusivamente opere d’esordio (tra gli autori che lancerà ricordiamo Kim Stanley Robinson, Lucius Shepard, Richard Kadrey e Michael Swanwick, fino a Jack McDevitt e Howard Waldrop).
È proprio il 1984 quando negli Ace SF Specials esce Neuromante (Neuromancer, traduzione di Giampaolo Cossato e Sandro Sandrelli, ultime edizioni italiane: Mondadori, 2003; Nord, 2004), un punto di svolta nella letteratura di quegli anni, attestato dalla triplice affermazione ai premi Hugo, Nebula e Philip K. Dick. L’influenza esercitata dall’opera va al di là del dato numerico dei quasi sette milioni di copie vendute nel mondo dalla sua uscita ad oggi. Neuromante ha contribuito a plasmare il mondo come noi lo conosciamo, influenzando l’immaginario degli scienziati e degli ingegneri all’opera nei campi dell’informatica e dell’elettronica. Si tratta di un’opera che rinnova i contorni del futuro e dà una nuova funzione alla sua metafora, distillando le intuizioni più significative emerse dalla fantascienza dei decenni precedenti (da Alfred Bester in avanti): il cyborg, la trasfigurazione del reale in uno spazio virtuale, la sperimentazione stilistica, rivivono grazie a Gibson, che guarda a un mondo saturo di tecnologie futuribili ma lanciato a folle velocità verso il baratro del collasso ambientale attraverso gli occhi dei reietti, alle prese con droghe e violenza urbana.
Come lui stesso ha ammesso in un’intervista per Details in occasione del decimo anniversario del film, durante una proiezione di Blade Runner Gibson rimase colpito a tal punto dall’estetica della pellicola di Ridley Scott (un’opera più nitida delle immagini che si rincorrevano nella sua mente per le scorrerie di Case, Molly e soci, mentre si trovava ancora al lavoro sulla stesura del romanzo) da uscire dalla sala in preda a una sensazione di sconfitta, sentendosi battuto sul tempo. Per nostra fortuna, Gibson riuscì a mettere a frutto l’esperienza e a tradurla su carta. E il resto è storia: Neuromante e Blade Runner sono oggi due pietre miliari, costantemente annoverate tra le opere più autorevoli della fine del XX secolo, capaci di propagare la loro eco attraverso cinema, letteratura, musica, moda, design e architettura. Entrambe di matrice fantascientifica, con il chiaro imprinting di quegli anni nei rispettivi codici genetici.

Il cielo sopra il porto aveva il colore della televisione sintonizzata su un canale morto”.

Se l’incipit è memorabile, quello che segue è un’estasi di iperrealismo capace di fondere noir e mistica tecnologica, nel continuo fine tuning dei registri con cui William Gibson mescola slang di strada e gergo tecnico, innescando una sintesi poetica densa e frastornante. Affidandosi allo schema collaudato dell’hard-boiled di Dashiell Hammett, Gibson ci introduce al sottobosco criminale delle metropoli del prossimo futuro. Le strade notturne dello Sprawl illuminate dai neon fanno da sfondo alle peripezie di Case, cowboy della consolle reclutato da un misterioso cliente per un ultimo colpo dopo anni di inattività. Inutile aggiungere che le apparenze ingannano e che forse, come accade, dietro i burattinai si nascondono nuovi ordini di controllo.
Come stanno le cose, Case lo scoprirà attraversando tutti gli aspetti di questo mondo futuro, dalla periferia di Tokyo all’ombra delle cupole geodetiche dell’Asse Metropolitano Boston-Atlanta, passando per Istanbul, dalla stazione spaziale di Freeside fino alle autostrade elettroniche del cyberspazio: lo spazio della proliferazione urbana sulla Terra, dove la vita vale meno di un chip di memoria; le costose attrazioni degli habitat orbitali e l’arcipelago di povertà che sempre si accompagna alle isole di ricchezza; la dimensione disincarnata di un non-spazio mentale, in cui tutto è concesso ma l’errore può costare caro. Sempre assistito da Molly Millions, la femme fatale dai molti nomi e dai numerosi passati, tutti oscuri; sempre sulle tracce di Neuromante, il costrutto artificiale che potrebbe consegnare alle Intelligenze Artificiali, severamente limitate dai controlli di Turing, il segreto dell’autocoscienza.
Gibson ci parla del nostro presente dipingendo questo scenario caleidoscopico in debito con le visioni di Thomas Pynchon, costruendo un futuro che solo in apparenza ci siamo ormai lasciati alle spalle. A Neuromante fanno seguito Giù nel cyberspazio (Count Zero, 1986, trad. Delio Zinoni, ultima ed.: Mondadori, 2000) e Monna Lisa Cyberpunk (Mona Lisa Overdrive, 1988, trad. Marco Pensante, ultima ed.: Mondadori, 1997), che completano la cosiddetta Trilogia dello Sprawl. Nessuno dei due si dimostrò all’altezza dell’irripetibile exploit del precursore, ma uno dopo l’altro portano efficacemente a compimento l’affresco gibsoniano del nostro futuro prossimo, scrutato attraverso le crepe della Rust Belt che nel frattempo ha fagocitato la costa atlantica degli USA (per una trattazione più diffusa dell’opera di Gibson rimando al mio articolo William Gibson: nessuna mappa per questi territori, pubblicato da Delos SF n. 100 nel 2007).
Neuromante è considerato all’unanimità il manifesto letterario del cyberpunk, etichetta che Gibson non ha mai dimostrato di sopportare troppo. A torto o a ragione, il ruolo del romanzo nell’ambito del movimento non può essere taciuto. Più efficace di mille pagine di teoria, Neuromante schiude un nuovo orizzonte alla fantascienza di quegli anni: parafrasando le parole che Raymond Chandler ebbe per Hammett ne “La semplice arte del delitto” (“ha restituito il delitto alla gente che lo commette per un motivo, e non semplicemente per fornire un cadavere ai lettori”, in netta antitesi con il giallo tradizionale), potremmo dire che Gibson, in contrapposizione con la scuola dell’hard science fiction, toglie le tecnologie dalle stanze asettiche dei laboratori e le restituisce alla gente che da sempre le usa per barcamenarsi in un mondo ostile, adeguando il proprio stile di vita alle possibilità concesse dal progresso. Celebre resta la formulazione di Gibson secondo cui “la strada trova il proprio uso per le cose”, sempre. E in strada la tecnologia si amalgama con le culture underground, diventa uno strumento di lotta e protesta o di sussistenza in un contesto di emarginazione, esalta lo spirito ribelle nella scoperta di nuove forme d’uso per dispositivi di già vasta diffusione.
Droghe sintetiche e realtà artificiali sono frequenti nelle opere cyberpunk, che spesso ritraggono un paesaggio fortemente modificato dalla tecnologia, attraverso cui s’intravede un mondo in bilico sull’orlo dell’apocalisse; l’impatto pervasivo della tecnologia sul panorama trova il suo controcanto nell’impatto della tecnologia sul corpo e sulla mente umani, che sovente ne risultano modificati in maniera radicale. I precursori letterari del cyberpunk sono autori come William S. Burroughs (con le sue sperimentazioni beatnik sulla scrittura e i ritratti di un’umanità alla deriva, prossima all’annichilimento e intrappolata in uno stato di paranoia permanente), Samuel R. Delany e James Graham Ballard (le cui esperienze nell’ambito dellaNew Wave rivivono opportunamente declinate in accordo ai tempi nelle opere degli autori cyberpunk) e, in contrapposizione all’illuminismo dell’hard sci-fi di stampo positivista, molti critici riconoscono al movimento un’ascendenza romantica.
Parleremo di questo e di altro ancora nel prossimo capitolo del nostro viaggio.

3. Il movimento degli anni ‘80

Facciamo un passo indietro. Se Neuromante è il titolo che sancisce la definitiva affermazione del cyberpunk e di una intera generazione di autori (Pat Cadigan, Rudy Rucker, Lewis Shiner, John Shirley, Tom Maddox, Paul Di Filippo, Marc Laidlaw, James Patrick Kelly, pur con diversi gradi di coinvolgimento), non si deve dimenticare che due anni prima quello che sarebbe diventato il guru della comitiva aveva dato alle stampe un’opera forse esteticamente meno compiuta, ma capace di rivelarsi sul lungo periodo (come vedremo) altrettanto influente dell’esordio di Gibson. Parliamo de La Matrice Spezzata di Bruce Sterling (Schismatrix, 1982, trad. Giampaolo Cossato e Sandro Sandrelli, ultima edizione: Mondadori, 2006). Modificandosi per affrontare la frontiera spaziale, l’umanità si è evoluta in una civiltà post-umana interplanetaria che ha ormai colonizzato l’intero sistema solare, dall’orbita terrestre alla cintura degli asteroidi, dalle valli marziane alle lune dei giganti esterni. La Matrice Spezzata è il nome di questo scenario, in cui dell’antica umanità terrestre sopravvive solo un ricordo che si fa di giorno in giorno più labile. I nuovi uomini del XXV secolo sono scienziati, artisti, diplomatici o mercanti che vivono in habitat spaziali e hanno abbracciato una delle due dottrine dominanti: quella dei Plasmatori, con la loro capacità di manipolare geneticamente gli organismi viventi per modificarne le caratteristiche, o quella dei Mech, che invece si affidano alla tecnologia protesica degli innesti cibernetici per potenziare il proprio corpo e amplificarne le facoltà. I rapporti tra le due parti sono tese e l’iniziativa commerciale – rilanciata dal contatto con una civiltà aliena interessata a scambi e investimenti nel sistema solare – è condizionata da un clima da guerra fredda su scala interplanetaria. Di generazione in generazione assistiamo alla progressiva disgregazione di questo già complesso sistema, con l’emersione di nuove correnti politiche, nuove linee di pensiero e nuove spinte che portano all’ulteriore frammentazione della Matrice in cladi e fazioni.
Sostenuto da una vocazione anarchica sovversiva, questo romanzo barocco è solo una parte del ciclo che attraverso altri cinque racconti dipinge l’evoluzione di un credibile scenario politico futuro dell’umanità. E, come recitava la quarta di copertina dell’edizione che la Nord riservò alla raccolta in volume dell’intera saga (1995), si configura come “uno dei più brillanti e originali tentativi di immaginare il futuro, il capolavoro che ha rivelato le vere potenzialità della fantascienza cyberpunk”.
Che qualcosa in quegli anni fosse nell’aria, lo dimostra d’altro canto anche Superluminal di Vonda N. McIntyre (1983, trad. Salvatore Proietti, Armenia, 2008). Biotecnologie, conflitti sociali, nuovi mezzi di comunicazione e nuove lingue, oceanografia e lampi di matematica. Tutto questo e molto altro ancora è possibile trovare in un romanzo sorretto da una vocazione universale (mimetica, diremmo oggi, capace di infrangere le barriere dei generi coniugando romance, avventura spaziale e fantascienza) e al contempo sorprendentemente in anticipo sui tempi, in cui convivono dirigibili e viaggi iperluce, supertecnologie, cyborg e cetacei intelligenti. Una scorribanda folle in cui si assapora il gusto della fantascienza migliore, a firma di una scrittrice versatile e immaginifica.
Proseguiamo questa parentesi negli anni del cyberpunk per continuare a parlare di science fiction al femminile. Nel 1984, anno che giustifica il suo ruolo di ideale crocevia in questo viaggio, la scrittrice e critica inglese Gwyneth Jones dà alle stampe Pazienza divina (Divine Endurance, trad. Flora Staglianò, Armenia, 2008), che anticipa nell’attenzione verso i temi della bioetica la sensibilità di molta fantascienza successiva: in un mondo devastato e caduto in disgrazia dopo che il progresso tecnologico ha sfiorato vette inconcepibili, due creature sintetiche (una gatta-robot dai poteri quasi magici e una ginoide adolescente) intraprendono un viaggio alla ricerca del proprio posto nel nuovo ordine delle cose.
Della pluripremiata Connie Willis segnaliamo una novella distopica particolarmente significativa: L’ultimo dei Winnebago (The Last of the Winnebagos, 1988, trad. Roberto Chiavini, ultima ed.: Delos Books, 2008), vincitrice dei premi Hugo e Nebula, un cupo affresco di una società futura in pieno collasso ambientale (un virus ha sterminato tutti i cani del pianeta, gli Stati Uniti sono in balia di una crisi idrica), alle prese con una riduzione progressiva delle libertà civili. Molto apprezzata per il tono leggero delle altre sue opere, nel solco del racconto Guardia antincendi (Fire Watch, 1982, trad. Antonella Pieretti, ultima ed. in I tempi che corrono, Mondadori, Urania Millemondi, 1998), vincitore dei premi Hugo e Nebula per il miglior racconto dell’anno, la Willis svilupperà a partire dagli anni ’90 un ciclo incentrato sui viaggi nel tempo da parte di un’accademia di storici del futuro, che grazie alla tecnologia del XXI secolo possono analizzare in presa diretta gli eventi al centro dei loro studi: ne L’anno del contagio (Doomsday Book, 1992, trad. Annarita Guarnieri, ultima ed.: Nord, 1996), che vinse i premi Hugo, Nebula e Locus, la destinazione è il Medioevo della Peste Nera, in To Say Nothing of the Dog (1998, ancora inedito in Italia), premio Hugo e premio Locus, l’Inghilterra Vittoriana; nel 2010 è uscito il romanzo doppio Blackout / All Clear, che torna all’ambientazione del racconto originario, ovvero i drammatici giorni della Battaglia d’Inghilterra e dei raid aerei della Luftwaffe su Londra, e che è valso all’autrice una nuova tripletta ai premi Hugo, Nebula e Locus.
Con Cybergolem (He, She and It, 1991, trad. Andrea Buzzi, Elèuthera, 1995) Marge Piercy dimostra la natura tutt’altro che occasionale della sua attitudine all’immaginario di genere e si aggiudica l’Arthur C. Clarke Award. Alle prese con una rilettura cyberpunk dell’antica leggenda ebraica, la poetessa e romanziera americana, nonché attivista per i diritti civili, molto amata dal pubblico e incensata dalla critica, coglie l’occasione per tracciare uno scenario distopico in cui far confluire le ansie del presente, legate ai rapporti tra i generi, alla difesa dell’ambiente e a una politica economica votata unicamente al profitto. In un’America post-apocalittica, le mire di dominio delle multinazionali minacciano una comunità di creativi hi-tech, un cyborg rappresenta la loro ultima possibilità di difesa, una donna s’incarica della sua educazione sentimentale.
Riprendiamo quindi il discorso sul cyberpunk. Del 1986 sono le due antologie più significative del decennio.
La notte che bruciammo Chrome (Burning Chrome, trad. Delio Zinoni, Mondadori, 1999) raccoglie dieci piccoli capolavori di William Gibson, forse l’apice più alto della sua produzione dopo Neuromante. Istantanee dallo Sprawl, foto-ritratto olografiche della sua famiglia di pirati del cyberspazio, corrieri mnemonici, esperti in defezioni, astronauti dimenticati in orbita, artisti del simstim e transfughi, emarginati, reietti. I paradisi artificiali generati dalla droga o dalla consolle sono il rifugio temporaneo di ogni sottocultura tecno-criminale e questi alienati consenzienti non fanno eccezione, pronti a ritagliarsi nell’illusione lo spazio vitale alla sopravvivenza, ma inesorabilmente obbligati a fare i conti con la vita di tutti i giorni.
Mirrorshades è l’antologia-manifesto del cyberpunk, curata da Bruce Sterling (edizione italiana a cura di Daniele Brolli e Antonio Caronia, ultima ed.: Mondadori, Urania Collezione, 2003), che si pone come documento programmatico della nuova generazione di scrittori di fantascienza, interpreti di una sensibilità emersa lungo gli anni ’80, tutti con le carte in regola per sondare il domani tastando il polso al presente. Racconti duri o immaginifici, cupi o stravaganti, accomunati da una marcata tendenza anticonformista. Il futuro visto attraverso gli occhiali a specchio, per recuperare il motto di Sterling, offre una sintesi ideale della nuova SF che andava ridefinendo in quegli anni i confini del nostro immaginario.
Di autori prossimi al cyberpunk vale la pena stilare una carrellata di titoli del tutto personale e non esaustiva (per maggiori dettagli rimando agli articoli di Salvatore Proietti Intorno al cyberpunk, apparso originariamente sulla rivista Acoma nel 1998, poi ripubblicato nel 2002 da Intercom, e Ripensando al cyberpunk, pubblicato da Delos SF n. 96, nel 2005). John Shirley, texano eclettico, capace di spaziare dall’horror al thriller, con occasionali capatine nel fumetto e al cinema (sua la sceneggiatura della versione cinematografica de Il Corvo, per la regia di Alex Proyas), dà alle stampe nel 1980 La musica della città vivente (City Come A-Walkin’, 1980, traduzione di Vittorio Curtoni, ultima ed.: Mondadori, Urania Classici, 1996), che trasfigura molte delle tematiche che confluiranno organicamente nel cyberpunk, a partire dall’ambientazione metropolitana per arrivare fino al controllo economico e sociale delle masse; la sua è una fantascienza sempre politicamente impegnata, come dimostra il trittico A Song Called Youth (formato dai romanzi Eclipse, Eclipse Penumbra, Eclipse Corona, rispettivamente del 1985, 1988, 1990, tutti editi da Urania), anche se forse la dimensione ideale della sua scrittura è quella del racconto, come dimostra l’ottima riuscita di Freezone, incluso in Mirrorshades. Nella sua trilogia del Budayeen, George Alec Effinger ci proietta nei bassifondi di una immaginaria metropoli mediorientale, con l’inedita trovata di un universo arabeggiante intriso di tecnologie avveniristiche a fare da sfondo a storie di stampo hard-boiled: L’inganno della gravità (When Gravity Fails, 1987, già pubblicato dalla Nord con il titolo alternativo di Senza tregua, trad. Maria Cristina Pietri, ultima ed.: Hobby & Work Publishing, 2007), Fuoco nel Sole (A Fire in the Sun, 1989, già pubblicato dalla Nord comeProgramma Fenice, trad. Maria Cristina Pietri, ultima ed.: Hobby & Work Publishing, 2008), La guerra di Marid Audran. Esiliato dal Budayeen (The Exile Kiss, 1991, trad. Maria Cristina Pietri, Nord, 1996).
In Settore Giada (Life During Wartime, 1987, tradotto da G.L. Staffilano, Mondadori, 1989), Lucius Shepard ci conduce nelle spire di una guerra sporca combattuta in America Latina e raccontata nei toni ispirati del realismo magico. Ambientazione e temi già toccati nel racconto Salvador (recentemente ritradotto da Marzio Tosello e ristampato nella raccolta Il meglio della SF. L’Olimpo dei classici moderni, Urania, 2008), uno dei vertici della fantascienza degli anni ’80 che già prefigura le doti di un autore che negli anni seguenti avrebbe saputo regalarci altre opere fondamentali.
Non propriamente cyberpunk, sebbene accomunato ai “neuromantici” da una chiara convergenza di sensibilità, a partire dall’ascendenza dickiana, è K.W. Jeter: ne parleremo più avanti a proposito di quello che a mio avviso è il suo romanzo più riuscito, ma qui vale la pena citare il controverso Dr. Adder (1984, trad. Fabio Zucchella, Fanucci, 1996), con un plot metropolitano incentrato sulla figura eponima di un artista-chirurgo cibernetico, dedito a operare modifiche all’apparato genitale delle sue pazienti (puttane, principalmente), con lo scopo di soddisfare le perversioni più astruse di una clientela non più insospettabile; in un’America balcanizzata, il suo più grande rivale è John Mox, predicatore della Video Chiesa delle Forze Morali e padrone dell’Orange County, in realtà reincarnazione mediatica di un feroce e repressivo agente della CIA. La resa dei conti per il controllo dell’Interfaccia, la fascia urbana di confine tra la Rattown di L.A. e la contea di Orange, si combatterà in uno spazio simulato, costruito attraverso l’interazione delle droghe psichedeliche con il circuito dei mass media. Negli anni successivi, Jeter si dedicherà tra le altre cose al prosieguo delle gesta di Rick Deckard, con ben tre diversi sequel di Blade Runner autorizzati ma non memorabili.
Con le dovute peculiarità, Michael Swanwick e Pat Cadigan propongono futuri strettamente imparentati, dominati dal commercio di personalità e dagli intrighi che ne derivano, rispettivamente ne L’intrigo Wetware (Vacuum Flowers, 1987, trad. Giampaolo Cossato e Sandro Sandrelli, Nord, 1988) e nel trittico Mindplayers (1987, trad. Nicoletta Vallorani, Shake, 1992), Sintetizzatori umani (Synners, 1991, trad. Giuliana Giobbi, Shake, 1998) e Folli (Fools, 1992, trad. Giuliana Giobbi, Shake, 2000).
Ma con questi titoli già ci addentriamo nel magma degli anni ’90.

4. Verso una nuova space opera

Immaginate una civiltà futura in grado di estendere il proprio dominio su ogni aspetto della materia e sullo stesso continuum spazio-temporale, manipolando i corpi e le menti e plasmando la realtà a proprio piacimento. Intelligenze artificiali, habitat spaziali, manufatti alieni sono solo alcune delle sorprese in cui potreste imbattervi solcando i sentieri siderali che ne collegano i remoti avamposti galattici. Quello che otterrete è un pallido miraggio del Ciclo della Cultura dello scozzese Iain M. Banks, ad oggi composto dai seguenti titoli: Pensa a Fleba (Consider Phlebas, 1987, trad. Roldano Romanelli, ultima ed.: Fanucci, 2002), L’impero di Azad (The Player of Games, 1988, trad. Anna Dal Dan, Nord, 1990), Lo Stato dell’Arte (The State of the Art, novella, 1989, trad. Anna Dal Dan, Fanucci, 2001) La guerra di Zakalwe (Use of Weapons, 1990, trad. Gianluigi Zuddas, Nord, 1991), L’altro universo (Excession, 1996, trad. Anna Feruglio Dal Dan, ultima ed.: Nord, 2004), Inversioni (Inversions, 1998, trad. Anna Feruglio Dal Dan, ultima ed.: Nord, 2007), Volgi lo sguardo al vento (Look to Windward, 2000, trad. Leonardo Rizzi, Fanucci, 2004), Matter (2008) e Surface Detail (2010), questi ultimi inediti in Italia.
La Cultura viene dipinta da Banks come una società costituita da entità organiche e artefatti senzienti, in cui i discendenti delle civiltà progenitrici cooperano nel comune interesse. In questo scenario non mancano comunque le ragioni di conflitto, considerando che malgrado il suo ruolo egemone la Cultura non è ancora riuscita ad avvolgere sotto la propria tutela la complessità delle specie in possesso della tecnologia per il volo stellare. Praticamente tutti i romanzi della serie raccontano storie ambientate ai margini di questo contesto, spesso su pianeti fermi a un livello tecnologico di almeno qualche ordine di grandezza inferiore agli standard della Cultura, dove agenti in lotta per l’integrazione e paladini dell’autonomia sono impegnati a fronteggiarsi.
Sebbene la familiarità con una società postumana sarebbe piuttosto spontanea, l’autore ha chiarito che i riferimenti temporali riportati in diverse puntate della saga collocano l’azione tra l’anno 1300 e il 2100 d.C. Per quanto ci siano stati in passato contatti con la Terra, l’unico mostrato nella serie (la novella Lo Stato dell’Arte) si svolge sul finire degli anni ‘70, quando la Cultura ha alle sue spalle ormai undicimila anni di storia, e mette a confronto in una narrazione molto tesa e toccante due punti di vista: quello di un fuggiasco che decide di esiliarsi sulla Terra e quello di una delegata della Cultura spedita in missione convincerlo a tornare sui propri passi.
Con il ciclo della Cultura Iain M. Banks ha reinventato negli anni del cyberpunk una science fiction in forte debito verso il senso del meraviglioso delle origini, con i suoi scenari galattici di rutilante e vertiginosa profondità. La sua opera è forse quella più rilevante, per gli esiti letterari, la forza d’impatto e l’influenza esercitata sul genere, nell’ambito della cosiddetta nuova space opera, che a partire dai tardi anni ’70 continua a proporre in rottura con la tradizione del filone storie più cupe e drammatiche, con un deciso aggiornamento tecnologico, una maggiore aderenza alle leggi della fisica e una convinta presa di distanze dai toni trionfalistici della colonizzazione spaziale promossa dai predecessori.
Il suo caso non resta isolato. Negli stessi anni Orson Scott Card dà forma al suo ciclo di Ender, pluripremiata epopea spaziale dai risvolti militareschi: Il gioco di Ender (Ender’s Game, 1985, trad. Gianluigi Zuddas, ultima ed.: Nord, 2005) e il successivo Riscatto di Ender (Speaker for the Dead, 1986, trad. Gianluigi Zuddas, ultima ed.: Nord, 2005), entrambi vincitori sia del premio Hugo che del Nebula per il miglior romanzo dell’anno, segnano l’inizio di una saga di grande successo popolare, benché oggetto di critiche non sempre benevole, con John Kessel che si è scagliato contro la visione morale propugnata da Card e Norman Spinrad che ne ha invece aspramente condannato il merito letterario. Un ciclo ancora più vasto, capace inoltre di coniugare la popolarità e la critica, con innumerevoli premi vinti e tre titoli inclusi nella New York Times Bestseller List, è il ciclo dei Vor di Lois McMaster Bujold, una space opera incentrata sulla figura di Miles Vorkosigan, principiata nel 1986 con L’onore dei Vor (Shards of Honor, tradotto da Gianluigi Zuddas, ultima edizione: Nord, 2005) e tuttora in corso di svolgimento, anche qui con un forte radicamento delle trame nella strategia bellica, ma non solo. Se Card sembra aver subito un’involuzione ben poco compassionevole dopo l’11 settembre, va riconosciuto alla Bujold anche il merito di aver saputo mantenersi coerente nel tempo con una visione schiettamente disincantata e antimilitarista della guerra.
Nel 1989 Dan Simmons dà inizio ai canti di Hyperion, una tetralogia che si svilupperà in quattro romanzi (Hyperion, La caduta di Hyperion, Endymion, Il risveglio di Endymion, ristampati nel 2010 da Fanucci, nella traduzione di G.L. Staffilano), tracciando un affresco ambizioso del futuro dell’umanità, tra misteriosi demiurghi alieni e fondamentalismo religioso, citazioni letterarie (il poeta romantico John Keats, il padre della letteratura inglese Geoffrey Chaucer e il nostro Giovanni Boccaccio su tutti) e tracce di postumanismo.
Un autore che già si era messo in luce negli anni ’70 (il suo romanzo d’esordio Linea calda Ofiuco, 1977, è annoverato tra i precursori del cyberpunk) è il texano John Varley, che tra il 1979 e il 1984 porta a compimento la trilogia di Gea, sviluppata a partire dal premio LocusTitano (Titan, 1989, tradotto da Vittorio Curtoni, ultima ed.: Mondadori, Urania Collezione, 2011) e proseguita con Nel segno di Titano e Demon (Wizard, 1980, trad. Riccardo Valla, e Demon, 1984, trad. Roldano Romanelli), entrambi di prossima ristampa in Urania Collezione. Una spedizione umana impegnata nell’esplorazione del sistema di Saturno a bordo dell’astronave Ringmaster, sotto il comando del capitano Cirocco Jones, s’imbatte in Temi, un habitat spaziale artificiale grande come un piccolo pianeta: i membri dell’equipaggio dovranno combattere per sopravvivere su questo mondo ignoto e, contando sulla propria umanità, arrivare a comprendere l’enigma di Temi e di Gea, l’intelligenza aliena che sembra presiedere all’intero ecosistema. Con un sapiente tratteggio delle psicologie e un senso per l’avventura à la Jack Vance che non trascura la verosimiglianza scientifica, Varley confeziona un capolavoro di hard sci-fi spaziale, nel solco di Arthur C. Clarke e del suo seminale Incontro con Rama (Rendez-vous with Rama, 1973).
Sulle stesse orme muove i passi la saga del Centro Galattico di Gregory Benford, composto da sei romanzi scritti nell’arco di vent’anni a partire dal capostipite Nell’oceano della notte (In the Ocean of Night, 1977, trad. Roberto Casalini e Piergiorgio Nicolazzini, Nord, 1986): anche qui una minaccia spaziale si trasforma in un’occasione da primo contatto con una civiltà aliena. Benford forma un trio di autori particolarmente caro agli appassionati della science fiction più scientificamente informata: anche per via di progetti che li hanno visti collaborare assieme (come il ciclo della Seconda Fondazione in omaggio all’originale creazione di Isaac Asimov), il suo nome viene spesso accostato a quelli di Greg Bear e David Brin. Quest’ultimo realizza il cosiddetto ciclo delle Cinque Galassie, formato da due trilogie consecutive di romanzi e da un certo numero di racconti scritti tra il 1980 e il 1998, basati sulle avventure di un’umanità futura in grado di “elevare” l’intelligenza degli animali (come delfini e scimmie) e servirsi delle loro facoltà accresciute nella conquista dello spazio, dove entra in contatto con una varietà di specie intelligenti: in una serie che si distingue per la sua sensibilità ai temi dell’ecologia, della religione e della diversità genetica, il secondo romanzo, Le maree di Kithrup (Startide Rising, 1983, trad. Roberta Rambelli, Nord, 1985), valse all’autore una tripletta da sogno, meritandogli i premi Hugo, Nebula e Locus. Brin si distingue anche nel genere post-apocalittico con il premio Locus L’uomo del giorno dopo (The Postman, 1985, trad. Annarita Guarnieri, Nord, 1995), storia di uno sbandato che per caso, attraverso la ricostituzione di un servizio postale, si scopre a ispirare la rinascita degli USA a seguito di una guerra devastante che ne ha causato la regressione a una terra di nessuno, contesa da bande armate ed eserciti privati. Di Bear, autore eclettico, ricordiamo La musica del sangue (Blood Music, 1985, trad. Gianluigi Zuddas, Nord, 1997), che espande il racconto vincitore nel 1983 dei premi Hugo e Nebula in un romanzo dal respiro planetario incentrato sulla trascendenza biotecnologica del genere umano, e Slant (1997, trad. Gianluigi Zuddas, Nord, 1998), che miscela nanotecnologie, intelligenze artificiali e le trame di una vasta cospirazione; ma è soprattutto con la serie di Eon, tradotta da Gianluigi Zuddas per l’Editrice Nord e composta di Eon (1985),Sfida all’eternità (Eternity, 1988) e Contro evoluzione (Legacy, 1995), e con la novella “lunare” Zero Assoluto (Heads, 1990, trad. Nicola Fantini, Nord, 2001), che Bear si attesta come autore di punta del genere, sostenuto da una forte carica immaginifica e capace di fondare trame spesso complesse su una rigorosa estrapolazione scientifica e tecnologica.
Più legato alla superficie terrestre ma non estraneo a occasionali incursioni spaziali è il ciclo della Rivoluzione d’Autunno dello scozzese Ken MacLeod. I titoli sono Il Piano Clandestino (The Star Fraction, 1995, trad. Andrea Marti, Fanucci, 2005), The Stone Canal (1996, inedito in Italia) e La Divisione Cassini (The Cassini Division, 1998, trad. Elisa Villa, Fanucci, 2001), cui si aggiunge The Sky Road (1999, inedito in Italia), che ipotizza un diverso svolgimento del ciclo a partire da una conclusione alternativa del primo libro. Nei suoi romanzi MacLeod mette a confronto gli esiti di dottrine disparate come comunismo, anarchia, anarco-capitalismo e liberismo, in strutture di scala transnazionale o planetaria. L’attualità del pensiero scientifico riveste un ruolo altrettanto importante, con alcuni temi ricorrenti come la teoria della Singolarità Tecnologica, lo studio dell’evoluzione futura della specie umana e la resurrezione cibernetica postumana.
Nel 2000, con toni meno idealisti di Banks e dei colleghi americani, il gallese Alastair Reynolds propone la propria personale rivisitazione deitopoi della space opera. Lo fa con la Serie dello Spazio della Rivelazione, che si compone ad oggi di cinque romanzi, Rivelazione (Revelation Space, 2000, trad. Riccardo Valla, Mondadori, Urania, 2009), Chasm City (2001), Redemption Ark (2002), Absolution Gap (2003), The Prefect (2007) e di un certo numero di romanzi brevi e racconti intermedi, tra cui ricordiamo almeno Glaciale (Glacial, 2001, incluso in Scorciatoie nello spaziotempo, Urania Millemondi, 2005, trad. Roberto Marini), La guglia di sangue (Diamond Dogs, 2001, trad. Arnaldo Dabbene, in Nova SF* n. 73, Perseo, 2006) e I giorni di Turchese (Turquoise Days, 2002, trad. Arnaldo Dabbene, in Nova SF* n. 75, Perseo, 2006). Il suo debito nei confronti di illustri innovatori del genere (su tutti, La Matrice Spezzata di Sterling) è forte, ma quest’opera si segnala comunque per un certo tasso di originalità. Fazioni umane coesistono con sfuggenti civiltà aliene, una guerra fredda di proporzioni interstellari si consuma dietro le quinte e la minaccia di annichilamenti planetari e genocidi è mascherata dai normali traffici commerciali e silenziata dalle distanze siderali che separano gli avamposti umani. Spesso i ruoli di buoni e cattivi si scambiano da un romanzo all’altro. Malgrado l’avanzatissimo livello di progresso tecnologico raggiunto dalle sue società future, Reynolds tende a connotarle con la stessa ambiguità che contraddistingue le società umane attuali, insidiate dalla corruzione anche quando sembrano sorrette dal più nobile degli intenti.
Un viaggio nelle profondità del futuro umano, alle prese con una colonizzazione dello spazio che sarebbe eufemistico definire problematica, tra virus informatici, intelligenze artificiali parassitarie, misteri alieni, personaggi che non sono chi credono di essere e minacce pronte a erompere dal profondo, che sia dello spazio siderale o della mente umana ha poca importanza. La conferma definitiva alle visioni di H.P. Lovecraft di un caos strisciante in agguato nelle profondità del cosmo.

5. Lo tsunami postcyberpunk degli anni ‘90

Negli anni ’90 il panorama si fa più fluido rispetto al decennio precedente. In un articolo apparso su Interzone nel 1991, “Cyberpunk in the Nineties”, Bruce Sterling decreta la fine del cyberpunk e subito si assiste a una nuova esplosione creativa, che ha come protagonisti autori di estrazione diversissima: non solo nuove leve, come si potrebbe facilmente supporre, ma anche veterani e reduci del movimento degli anni ’80.
Una figura di continuità tra il cyberpunk e la new space opera è rappresentata da Kim Stanley Robinson, voce personalissima e talento sfaccettato, capace di pronunciarsi con autorevolezza nei più svariati filoni del genere e sempre con risultati di primissimo rilievo, benché l’editoria italiana non gli abbia mai riconosciuto l’attenzione e la cura che la sua opera avrebbe meritato. Dal triplice esordio nel 1984 (anno di pubblicazione di ben due romanzi, nonché della sua tesi di dottorato in letteratura inglese, dedicata ai romanzi di Dick), Robinson ha spaziato dalla distopia all’ hard sci-fi, dall’ucronia al catastrofismo. Icehenge (1984, trad. Gianluigi Zuddas, Nord, 1986) è un mystery di ambientazione spaziale che si svolge in tre diversi periodi, con tre voci narranti a coprire un arco temporale di quasi quattro secoli: politica, archeologia ed esplorazione spaziale danzano intorno al fulcro immobile del romanzo, l’enigma di una Stonehenge extraterrestre scolpita nel ghiaccio presso il polo nord di Plutone. Sempre nel 1984 esce La Costa dei Barbari (The Wild Shore, trad. G.L. Staffilano, Interno Giallo, 1990), primo tassello di un’ambiziosa trilogia conosciuta come delle Tre Californie, in cui Robinson s’impegna nell’affresco di tre versioni alternative del futuro di Orange County. Gli altri due titoli sono Costa delle Palme (The Gold Coast, 1988, trad. Grazia Alineri, ed. Interno Giallo/Mondadori, 1994) e Pacific Edge (1990, rimasto inedito in Italia), e attraverso il trittico Robinson svolge una riflessione sulla costruzione di una società ecosostenibile attraverso la ricerca di un equilibrio tra sviluppo tecnologico e rispetto dell’ambiente. Il primo libro presenta un’America regredita a una nebulosa di comunità rurali a seguito degli effetti devastanti di un olocausto nucleare; il secondo ci conduce in una California ipertecnologica, esposta ai colpi del conflitto tra fabbricanti d’armi e terroristi; il terzo ci mostra infine un’utopia ambientalista, minacciata dalla corruzione che si annida dietro un progetto di speculazione edilizia.
La trilogia di Orange County anticipa temi che verranno sviscerati da Robinson nell’acclamata trilogia di Marte: Il rosso di Marte (Red Mars, 1993, trad. Maurizio Carità, ed. Mondadori, 1995), seguito dagli inediti in Italia Green Mars (1995) e Blue Mars (1996), tratteggia l’epopea della colonizzazione e terraformazione del pianeta rosso e il difficile cammino verso un’utopia assediata delle corporazioni transnazionali, attirate dalle sue risorse minerarie.
Al di là dell’orbita di Marte è situata la Solitaire Station dell’omonimo romanzo breve di Lucius Shepard (Barnacle Bill, the Spacer, 1992, trad. Anna Monaldi, Delos Books, 2006), dove vengono assemblate e lanciate le navi-luce a caccia di pianeti vergini, per garantire un futuro a un’umanità ormai in fuga dalla Terra devastata dall’inquinamento. Qui vive Bill lo scocciatore, un ritardato perseguitato da tutti ma destinato a riscattarsi con un gesto clamoroso che non verrà compreso se non dopo averlo messo seriamente in pericolo di vita. Ancora il tema della diversità viene esplorato dall’inglese Richard Calder nella sua “Dead” Trilogy, inaugurata daVirus Ginoide (Dead Girls, 1992, trad. Fabio Zucchella, Nord, 1996) e proseguita con gli inediti da noi Dead Boys (1994) e Dead Things (1996), che ci proietta nel 2071, dopo che un contagio virale trasmesso per via sessuale ha infettato strati sempre più vasti della popolazione maschile e gli effetti si sono ripercossi sulla loro prole femminile. Le ragazze nate da genitori infetti, all’ingresso nella pubertà, sperimentano la metamorfosi in bambole ginoidi, chiamate Lilim. Mercificazione della natura femminile, espropriazione dell’identità sessuale e conflitto tra finzione e autenticità sono i temi portanti dell’opera di Calder, tra i più apprezzati autori della marea postcyberpunk.
Ne La parabola del seminatore (Parable of the Sower, 1993, trad. Anna Polo, Fanucci, 2006) Octavia E. Butler presenta un mondo di enclave e di forti disparità. Scritto in forma di diario, il romanzo racconta le vicissitudini di una ragazza iperempatica, costretta a farsi carico del dolore sperimentato dalle persone che la circondano, attraverso una California ormai in rovina. E dipinge l’incubo di un particolarismo talmente spinto da degenerare in feudalesimo e schiavitù, un tema caro all’autrice prematuramente scomparsa nel 2006. Sempre a proposito del collasso dell’America, inAngeli di seta (China Mountain Zhang, 1992, trad. Anna Martini, Fanucci, 2002), vincitore dei premi Lambda, James Tiptree Jr e Locus, Maureen F. McHugh racconta la storia di formazione di Rafael Zhang Zhongshan, un “sangue misto” in un mondo dominato dalla Cina e da una morale omofoba. A partire dalla novella Mendicanti in Spagna (Beggars in Spain, 1991, trad. Viviana Viviani, Delos Books, 2005), vincitrice dei premi Hugo e Nebula, anche Nancy Kress si confronta in un trittico di romanzi con il tema della difficoltà d’integrazione, in questo caso tra un’elite di mutanti dalle superiori facoltà psichiche, che non hanno bisogno di dormire e pertanto vengono definiti Insonni, e il resto dell’umanità, che per gli Insonni più sprezzanti si compone solo di Mendicanti.
In anni ancora pervasi dall’euforia cyberpunk, Vernor Vinge conia il concetto di Singolarità Tecnologica (un punto di non ritorno nel progresso, oltre il quale la velocità delle innovazioni vanifica qualsiasi tentativo di estrapolazione) nell’articolo “The Coming Technological Singularity: How to Survive in the Post-Human Era” (1993) e propone con Universo Incostante (A Fire Upon the Deep, 1992, trad. Gianluigi Zuddas, Nord, 2003) un’epopea fantascientifica che abbraccia uno scenario futuro da capogiro, in cui razze aliene interagiscono con derive evolutive dell’umanità e il “vecchio uomo” è solo un ricordo perso tra le nebbie della confusione pre-Singolarità. Riesumando le intuizioni di Delany, con altrettanto vigore di quanto prima di lui aveva fatto Sterling, Vinge dipinge un affresco visionario, un capolavoro di speculazione e trasfigurazione che apre un nuovo promettente filone a cui attingeranno a piene mani gli orfani del cyberpunk: il cosiddetto postumanismo (per una trattazione più esaustiva rimando al mio articolo "Il Postumanesimo, sulla frontiera della fantascienza", pubblicato in tre parti su Delos SF n. 108 nel 2008: 1, 2, 3).
Vinge farà una nuova incursione nell’universo incostante con A Deepness in the Sky (Quando la luce tornerà, 1999, sempre per i tipi Nord), ambientato 12.000 anni nel passato del primo romanzo. Entrambi sono stati insigniti del Premio Hugo. Nel 2011 è uscito il seguito diretto di Universo Incostante, Children of the Sky (in Italia ancora inedito).
Un passo indietro… Cosa fanno i padri del cyberpunk, adesso che il cyberpunk è morto? Nel 1991, per cominciare, esce La macchina della realtà (The Difference Engine, trad. Delio Zinoni, Mondadori, 2001), romanzo scritto a quattro mani da William Gibson e Bruce Sterling. Ambientata in una Londra vittoriana alternativa che risente dei benefici di una rivoluzione informatica anticipata, è considerata l’opera che ha definitivamente contribuito all’affermazione dello steampunk, oggi tornato tanto di moda. Gibson si cimenta poi in una nuova serie, nota come latrilogia del Ponte, incentrata su temi di attualità come la globalizzazione, l’ambientalismo, la società dell’informazione, e formata da Luce virtuale (Virtual Light, 1993, trad. Delio Zinoni, Mondadori, 2008), Aidoru (Idoru, 1996, trad. Delio Zinoni, Mondadori, 2002) e American Acropolis (All Tomorrow’s Parties, 2000, trad. Daniele Brolli, Mondadori, 2002). Dopo alti e bassi sul fronte dei romanzi, Sterling confeziona nel 1999 quella che forse è la sua antologia migliore fino ad oggi: Un futuro all’antica (A Good Old-fashioned Future, 1999, trad. Giorgia Gatta, ultima ed.: Mondadori, 2007), sette racconti in presa diretta dal fronte del cambiamento che attraversa il decennio.
A proposito di steampunk, La Trilogia Steampunk di Paul Di Filippo (The Steampunk Trilogy, 1995, trad. Salvatore Proietti, ultima ed.: Delos Books, 2011) è una scanzonata sintesi dell’esperienza radicale del cyberpunk con le suggestioni della storia alternativa e le tentazioni del pastiche. Elementi che in questo trittico di romanzi brevi diventano gli ingranaggi di una bomba a orologeria. Di Filippo riprende miti di Cthulhu e convinzioni pre-evoluzioniste in odore di oscurantismo e si diverte a rimescolarli con schegge di poesia pre e post-beatnik. Il risultato è un tour de force inventivo in un’epoca vittoriana immaginaria, dove le locomotive viaggiano grazie al vapore sprigionato da noccioli di uranio e sull’impero britannico vigila una regina anfibia e ninfomane.
Scrittore come Di Filippo molto raffinato sotto il profilo letterario e interessato alla science fiction anche come spazio per una possibile sperimentazione stilistica, e come Robinson ingiustamente trascurato dall’editoria italiana, negli anni il nordirlandese Ian McDonald è approdato sui nostri scaffali solo con una manciata di racconti e una minima parte dei suoi romanzi, per l’esattezza tre: Necroville (1994, trad. Bernardo Cicchetti, Fanucci, 1996), toccante intreccio di storie in un mondo pervaso dalla nanotecnologia, che ha reso possibili miracoli come la resurrezione dei morti, ma l’incubo è sempre in agguato; Forbici vince carta vince pietra (Scissors Cut Paper Wrap Stone, 1994, trad. Antonio Caronia, Einaudi, 1997), un pellegrinaggio cyberpunk in un Giappone del futuro intriso di meraviglie tecnologiche; I confini dell’evoluzione (Evolution’s Shore, 1995, trad. Anna Polo, Fanucci, 2003), su un’inedita contaminazione aliena dell’ecosistema terrestre.
Nel 1995 esce l’antologia personale di uno schivo programmatore australiano che fa dell’estrapolazione scientifica il suo asso nella manica. Axiomatic (trad. Riccardo Valla, Mondadori, Urania, 2003) raccoglie diciotto dei migliori racconti del più brillante esponente contemporaneo dell’hard sci-fi. Greg Egan ha la capacità unica di prendere una teoria matematica, una scoperta scientifica, una possibilità tecnologica e riuscire a svilupparla fino alle sue più estreme conseguenze, e in questi racconti la forza delle idee colpisce duro, meravigliando il lettore per la lucidità della loro esplorazione. Paradossalmente, se da un lato Egan appare solitamente – ma con le dovute eccezioni – poco interessato alla psicologia umana, è anche vero che riesce a dare il meglio di sé quando prende in esame intelletti superiori, come l’intelligenza artificiale di Singleton (2002, trad. Fabio Feminò, in Lo scudo di Marte, Mondadori, Urania Millemondi, 2006), storia di Helen, la prima IA costruita su un processore quantistico, forse l’unica entità dell’universo svincolata dalla natura probabilistica della realtà e per questo provvista di libero arbitrio. Un bel paradosso per i suoi “genitori”, impegnati in una durissima lotta per difenderla dai pericoli del mondo.
I romanzi di Egan tendono a esplorare un’umanità sempre più remota nel futuro, alle prese con interrogativi che investono i segreti dell’universo, della vita e della coscienza: Permutation City (1994, trad. Giancarlo Carlotti, Shake, 1998), Teranesia (1999, trad. Roldano Romanelli, Fanucci, 2001), Distress (1995, trad. Riccardo Valla, Urania, 2002), Diaspora (1997, trad. Riccardo Valla, Urania, 2003), La scala di Schild (Schild’s Ladder, 2002, trad. Riccardo Valla, Urania, 2004). In Oceanic, romanzo breve del 1998 vincitore dei premi Hugo e Locus (trad. Viviana Viviani, Delos Books, 2006), Egan ci porta su Covenant, un pianeta colonizzato da un’umanità avanzatissima e adesso divisa su base etnica tra i Terricoli stanziati sulla terraferma e gli Acqualiberi che invece scorrazzano sui suoi immensi oceani, come pure su base religiosa tra Chiesa Profonda e Chiesa Transizionale. In questo scenario si consuma la ricerca della verità da parte di Martin: una verità sulle origini della sua specie, ma anche sulle basi del culto più potente di Covenant. Ecopoiesi, esobiologia e misticismo sono le direttrici lungo le quali Egan svolge una delle sue opere più ambiziose, uno sconvolgente trattato sulla necessità umana del sovrannaturale che si risolve nella rivelazione di una “trascendenza biochimica”.
Restiamo in ambito marino con un’altra trilogia, purtroppo come quelle di Robinson e di Calder giunta incompleta sulle nostre spiagge. Nellaserie dei Rifters, composta da Stelle di mare (Starfish, 1999, trad. Elisa Villa, Fanucci, 2001) e dagli inediti in Italia Maelstrom (2001) e βehemoth (2004), il biologo marino canadese Peter Watts ci porta a scoprire i suoi uomini futuri modificati dalla tecnologia per adattarsi alla vita subacquea, in un saggio sull’adattamento, la solitudine, il dolore e l’alienazione.
L’ingegneria genetica fornisce a Michael Marshall Smith lo spunto per Ricambi (Spares, 1996, trad. Gianni Pannofino, Garzanti, 2004), che prende le mosse da un tema d’attualità come la clonazione per sviluppare un noir crudo e visionario. In un mondo da incubo, dove le Fattorie sono serbatoi di organi di ricambio per i potenti e i MegaMall commerciali solcano mastodontici i cieli del mondo, ecco Jack Randall vestire i panni del fuggitivo. Era un tossico, Randall, e ora è un idealista. È stato anche uno sbirro, corrotto per dirla tutta, nonché soldato in una guerra impossibile combattuta contro le truppe invisibili di un mondo parallelo: il Gap, un’intersezione di stati d’animo elementari e istinti primari, la sovrapposizione di “tutti i luoghi in cui non si è, di tutti i panorami che nessuno vede”. Un posto per niente adatto agli uomini, che lui non è ancora riuscito a mettersi alle spalle.
Sulla stessa falsariga si muove Concerto per archi e canguro (Gun, with Occasional Music, 1994, trad. Gianni Pannofino, Tropea, 2002), romanzo d’esordio di Jonathan Lethem, che fonde in un mix distopico postmoderno la fantascienza di Philip K. Dick e l’hard-boiled di Chandler e Hammett. Il suo protagonista è un investigatore privato alle prese con un’indagine scomoda nei bassifondi della Bay Area, tra canguri-sicari intellettualmente arricchiti che prestano servizio per la mala, stupefacenti che donano l’oblio e forme di controllo sociale basate sul karma.
Una consonanza con il romanzo di Smith la si trova anche in Noir (1998, trad. Anna Martini, Fanucci, 2000) di K.W. Jeter: nichilismo e perversioni vanno in onda per le strade del Gloss, avveniristica megalopoli transcontinentale che circonda il Pacifico. Il potere è saldamente nelle mani di pochi gruppi economico-finanziari che offrono servizi per tutte le tasche e se qualcuno muore prima di aver saldato i propri debiti, viene riportato in vita artificialmente e costretto a ripagarsi la libertà (leggi: il diritto alla pace eterna). La lotta per la sopravvivenza è spietata, ma una minaccia ancora peggiore sembra emergere all’improvviso dal Cuneo, regione segnata da una tragica guerra e da anni abbandonata a se stessa…
Se credete che questo mondo sia brutto, dovreste provare K.W. Jeter.
Una società di sole donne è quella delineata dall’inglese Nicola Griffith per il pianeta Jeep, che fa da sfondo alla storia di Ammonite (1992, trad. Riccardo Gramantieri, Perseo, 2007), premio Lambda e premio James Tiptree Jr. Un’antropologa deve sottoporsi a un doloroso processo di immunizzazione biologica per indagare i misteri del pianeta colonizzato da una spedizione che, a causa di un virus sconosciuto, ha visto sopravvivere solo le donne dell’equipaggio originario. Per certi aspetti, richiama Ammonite la novella Il linguaggio segreto di Ruth Nestvold (Looking Through Lace, 2003, trad. Stefano Bertone, Delos Books, 2006), delicato racconto di una xenolinguista che approda sul pianeta Kailazh per studiare l’enigma di una civiltà aliena dalle relazioni rigidamente codificate tra i sessi, al punto da sviluppare una lingua riservata alle sole donne.
Concludiamo la panoramica degli anni ‘90 con uno dei numi tutelari, figura di riferimento e vera maestra, del genere. Ursula K. Le Guin, con il romanzo La salvezza di Aka (The Telling, 2000, trad. Piero Anselmi, Mondadori, 2002), segna uno dei vertici della letteratura distopica di questi anni, contrapponendo due diversi sistemi di terrore: sulla Terra quello dei fondamentalisti religiosi emersi dall’Era della Purificazione e su Aka quello dello Stato Azienda che ha abolito la religione e ogni forma d’arte nel nome del consumismo. La cancellazione della storia e l’abolizione della memoria sono i tratti che accomunano queste società senza passato. E per sconfiggere le rispettive distopie i protagonisti non potranno che ricorrere a una sintesi, in grado di valorizzare le differenze e le peculiarità in contrapposizione all’omologazione, e piegare la padronanza della tecnologia alla guida di una sapienza antica (per approfondire, si rimanda all’articolo Distopia, andata e ritorno di Salvatore Proietti, su Delos SF n. 93, 2004).
Una sintesi di innovazione e riscoperta critica delle origini del genere sarà anche la chiave per capire l’evoluzione della science fiction nel decennio successivo.

6. Prospettiva degli anni Zero

Addentriamoci nel nuovo millennio con una serie di narrazioni alquanto singolari, a partire da tre romanzi brevi che ritraggono peculiari distorsioni della nostra realtà.
In Un anno nella Città Lineare (A Year in the Linear City, 2002, trad. Roberto Chiavini, Delos Books, 2008) Paul Di Filippo concepisce una città confinata ai bordi di un’unica strada. Da una parte corrono i Binari della ferrovia, dall’altra le acque del Fiume. E oltre questi confini il Lato Sbagliato dei Binari e l’Altra Sponda, rifugio di creature assurde prese in prestito da una bizzarra mitologia dell’oltretomba. Strada Maestra si estende per decine di milioni di isolati e nessuno sa davvero se abbia un inizio o una fine. Sotto le evoluzioni celesti del Sole Giornaliero e del Sole Stagionale che incrociano le loro traiettorie nei cieli della città, si snoda un anno nella vita di Diego Patchen, scrittore di Narrativa Cosmogonica, e dei suoi eccentrici amici. Un paesaggio altrettanto bizzarro appare in Universo distorto di Charles Stross (Missile Gap, 2007, trad. Roberto Chiavini, Delos Books, 2007), che parte da un assunto che definire assurdo sarebbe riduttivo (basti sapere che la Terra di Stross è piatta) e scava tra le premesse alla ricerca dell’origine razionale di questo mondo. Proprio come nell’opera di Di Filippo, nell’atmosfera onirica e stralunata che regna su queste pagine s’innestano molteplici sottotesti, dalle potenzialità mitopoietiche della letteratura alle connessioni della fantascienza con l’immaginario popolare, fino alla ricostruzione d’ambiente capace di gettare una nuova, sinistra luce sui mitici anni ‘70 (e non solo quelli, a dire la verità). L’elemento di maggior pregio di questi romanzi brevi è forse proprio la loro carica immaginifica, capace di sovvertire le convenzioni e regalarci visioni spiazzanti coniugando il surreale all’orrore, senza paura di innestare la marcia quando si tratta di virare il sogno nell’incubo.
Solo in apparenza meno bizzarro dei precedenti è Le stelle senzienti di Lucius Shepard (Stars Seen Through Stone, 2007, trad. Roberto Chiavini, Delos Books, 2009), che ci conduce nella provincia deindustrializzata della Pennsylvania occidentale, terra di miniere e acciaierie dove l’impatto ambientale di decenni di attività antropica e di iniziativa industriale spregiudicata si avverte ancora nei boschi e nei fiumi, in cui sembrano annidarsi creature misteriose e terribili. Black William ha preso il nome da un suo illustre cittadino dell’Ottocento, che seminò nei dintorni violenza e terrore spadroneggiando come un duca feudale senza incontrare ostacoli. E un filo sottile si riallaccia a quel passato, prospettando un “aldilà” da cui sembrano escluse la compassione e la redenzione, quando una serie di inspiegabili fenomeni meritano alla località la controversa fama di “Capitale Cerebrale della Pennsylvania”.
Un passaggio in India con Ian McDonald, autore del racconto La moglie del djinn (Djinn’s Wife, 2007, trad. Francesco Lato, in Robot n. 53, 2008) e della novella Il circo dei gatti di Vishnu (Vishnu at the Cat Circus, 2009, trad. Bruno Andrea, Delos Books, 2011), due tasselli dell’antologia Cyberabad Days (2009) che conserva stretti legami con River of Gods, romanzo del 2003 vincitore del BSFA Award. La moglie del djinn ha vinto il premio Hugo per il miglior racconto nel 2007. È una storia d’amore vissuta sul fronte della Singolarità, che trasfigura su uno sfondo vivido e accattivante conflitti culturali purtroppo sempre attuali, denunciando l’ottusità dei governanti che non esitano a trasformarsi in terroristi e regalandoci un’immagine dal fortissimo impatto emotivo, nell’accostamento delle IA della nuova era alle divinità della tradizione hindu, schierate in assetto di guerra nel cielo di Delhi. L’India di McDonald è frammentata, diremmo balcanizzata, e le avvisaglie di una Guerra dell’Acqua minacciano di incrinare i rapporti tra lo stato di Bharat (ciò che resta dell’antica Unione Indiana) e Awadh, che si affaccia sulle rive settentrionali del sacro fiume Gange. Malinconico e caleidoscopico, Il circo dei gatti di Vishnu riserva al lettore lo stupore di una fantastica storia orale riportata direttamente dalla voce del suo protagonista. E McDonald infarcisce il racconto di Vish di soluzioni immaginifiche che si legano magnificamente al consueto piglio postmoderno della sua narrativa, esaltandone la tecnica funambolica al pari delle coreografie in cui il narratore coinvolge il suo circo di gatti, alle prese con esercizi sempre più complessi e straordinari, nei siparietti che intervallano il flusso della narrazione. Una lettura divertente e a tratti esaltante, in grado di condensare in una manciata di pagine gli orizzonti della fantascienza contemporanea.
La digitalizzazione della coscienza come prossimo stadio evolutivo dell’umanità è prospettata, con rischi annessi, in Furto d’identità di Robert J. Sawyer (Identity Theft, 2005, trad. Elisabetta Vernier, Delos Books, 2006), ancora un’indagine fantascientifica, ma questa volta calata nell’atmosfera western di un avamposto di frontiera tra le desolate lande marziane.
Un salto nello spazio e nel tempo ci porta a imbatterci in un’umanità futura che grazie alla tecnologia aliena può sfruttare i requisiti delle coscienze digitalizzate per proiettarle attraverso gli abissi interstellari. E come insegna Nietzsche, all’umanità che a lungo ha scrutato nell’abisso, l’abisso ha contraccambiato lo sguardo, e Richard K. Morgan fa proprio l’insegnamento nella stupefacente serie di Takeshi Kovacs, tradotta da Vittorio Curtoni e composta da Bay City (Altered Carbon, 2002, Nord, 2003; riedito da TEA Due nel 2006), Angeli spezzati (Broken Angels, 2004, Nord, 2005), Il ritorno delle furie (Woken Furies, 2005, Nord, 2008). Echeggiando Philip Marlowe e i disillusi detective della Continental Op di Dashiell Hammett, Kovacs è un reduce di guerra che ha alle spalle tante vite quanti pianeti visitati, ridotto ormai, come la stragrande maggioranza dei suoi simili, a un costrutto di dati contenente lo schema digitalizzato della sua coscienza, immagazzinato in un dispositivo elettronico – la pila – inserito in un corpo a noleggio. Ma non ha affatto dimenticato i torti e le colpe delle sue precedenti incarnazioni. Il cupo senso di disillusione che lo circonda e la personalissima etica che ne muove le azioni lo rendono un personaggio unico, difficile da dimenticare. Politica, guerra e fondamentalismi vari, dal fanatismo terrorista islamico all'integralismo (anti)bioetico cattolico, si susseguono in una girandola di eventi a bassissimo tasso di sopravvivenza, commentati dalla lingua sferzante di Kovacs. Il celebrato Bay City vince meritatamente il Philip K. Dick Award e si merita due seguiti entrambi all’altezza: la parentesi di Angeli spezzati, ambientato in uno scenario di guerra con infiltrazioni di orrore cosmico di stampo lovecraftiano, e Il ritorno delle furie, un ritorno alle origini del personaggio (uno sguardo più approfondito si può trovare nello speciale “Il ritorno delle furie di Richard K. Morgan” su Delos SF n. 109).
Per certi versi simile è la trilogia che il veterano M. John Harrison, già attivo nell’ambito della New Wave, ha cominciato a comporre partendo da Luce dell’Universo (Light, 2002, traduzione di Vittorio Curtoni, Mondadori, Urania Speciale, 2006): una Spiaggia cosmica disseminata di resti di antiche civiltà aliene, il relitto di un’astronave, uno scheletro umano. E tre storie che si dipanano tra il nostro presente e il 2400, tra Londra, lo spazio profondo e le colonie remote dell’umanità, orchestrate da una misteriosa creatura metafisica. Ma cos’è lo Shrander che tormenta i protagonisti? Incubo sopravvissuto alle loro tribolate infanzie o creatura aliena sopravvissuta alla sua specie? E quali sono i suoi oscuri propositi? Mistero, azione e avventura spaziale sono gli ingredienti che Harrison mescola in questo cocktail esplosivo, un turbine caleidoscopico che strizza l’occhio a modelli letterari del calibro di William S. Burroughs e Thomas Pynchon, omaggiati implicitamente nella frammentarietà dell’azione e nel registro espressivo modulato tra realismo scientifico e toni del vaudeville. Nel 2006 l’universo del Fascio Kefahuchi si arricchisce di un nuovo titolo: Nova Swing (trad. Flora Staglianò, Urania, 2010), che vive nel gioco dei rimandi e delle sensazioni ed esalta le qualità stilistiche del suo autore nella definizione di un’atmosfera struggente. Ma come ricorda lo slogan di un’impresa commerciale che presta anche il titolo al libro (”Mira al futuro”), la nostalgia di Harrison non è diretta verso qualcosa di già smarrito, ma verso qualcosa che potremmo perdere, nel corso della nostra ascesa alle stelle. Ogni impresa, dopotutto, resta esposta al rischio della sconfitta. E quanto maggiore è la sua portata, tanto maggiore risulta il sacrificio richiesto. L’efficacia del mondo di Harrison nasce anche dall’aver dato voce ai reietti del futuro, ricordandoci che sull’orizzonte del domani non si affollano solo mirabili prodigi e benefiche conquiste. Un terzo volume, Pearlant, è annunciato per il 2012.
Di Bruce Sterling dobbiamo annoverare Il chiosco (Kiosk, 2007, trad. Jasmina Tesanovic e Salvatore Proietti, Delos Books, 2008), un piccolo gioiello in cui viene proposta la rivoluzione economica del XXI secolo, con epicentro nel disastrato territorio balcanico. La Serbia è un paese sul margine del caos, conteso tra la frontiera dell’innovazione e gli spettri di un passato non ancora pacificato. La nanotecnologia esalta il senso del futuro di un rigattiere di Belgrado, ma catalizza le attenzioni di organizzazioni criminali e bande politiche pronte a tutto.
Prosegue nella prima decade del nuovo millennio il processo di graduale spostamento sul presente della narrativa di William Gibson, catalizzato anche dalla tragedia dell’11 settembre 2001. Ne L’accademia dei sogni (Pattern Recognition, 2003, trad. Daniele Brolli, Mondadori, 2005) potremmo localizzare il mondo di Cayce Pollard cinque minuti nel nostro futuro. Ma anche così Gibson riesce a mettere a segno non pochi colpi da maestro, inclusa la prefigurazione di YouTube e un’indagine quasi antropologica delle strategie di comportamento degli utenti nelle nuove sottoculture proliferate ai tempi del web. La trilogia della Blue Ant, che coinvolge l’omonima rampante e imperscrutabile compagnia di marketing intenta a cogliere le potenzialità più promettenti legate alla moda, prosegue con Guerreros (Spook Country, 2007, trad. Daniele Brolli, Mondadori, 2009), quasi una spy story che si muove tra arte locativa, realtà aumentata e Santería cubana, con un’esplicita condanna della guerra al terrore condotta dalle amministrazioni americane nell’era Bush Jr; e si conclude con Zero History (2010), che in Italia stiamo ancora aspettando.

7. Accelerando nel nuovo millennio: una corsa contro il tempo

Voglio concludere questa panoramica – lacunosa, soggettiva, fortemente condizionata dal gusto personale di chi scrive – con una riflessione sul tempo.
Nel 1999 esce FlashForward (trad. Maurizio Nati, Fanucci, 2009). Tra i canadesi che si sono distinti negli ultimi anni, Robert J. Sawyer è senz’altro l’autore di punta: promotore del genere tout-court, esponente della fantascienza d’idee riconducibile agli insegnamenti di Isaac Asimov e Arthur C. Clarke, provvisto di un solido background scientifico, nelle sue opere l’umanità deve spesso confrontarsi con eventi che ne mettono in discussione le certezze e producono profondi mutamenti nelle esistenze dei singoli. Grande successo ha riscosso la suaNeanderthal Parallax, sull’incontro con un mondo parallelo in cui la civiltà si è evoluta dall’uomo di Neanderthal: La genesi della specie (Hominids, 2002, trad. Giuseppe Costigliola, 2008), Fuga dal pianeta degli umani (Humans, 2003, trad. Dario Rivarossa, 2009), Origine dell’ibrido (Hybrids, 2004, trad. Dario Rivarossa, 2009) sono stati tutti pubblicati da Urania di recente. Ed enorme interesse continua a riscuotere la sua ultima trilogia in corso di completamento: WWW, sull’autocoscienza del Web e l’influenza della percezione sulla nostra rappresentazione e comprensione della realtà (il primo volume, WWW: Wake, 2009, è stato pubblicato nel 2011 da Urania, WWW 1: Risveglio, trad. Dario Rivarossa). In FlashForward un incidente provocato da un’interferenza cosmica con il funzionamento dell’LHC del Cern produce uno slittamento temporale delle coscienze dell’intera umanità, che subiscono un blackout di circa due minuti durante i quali vengono proiettate nel futuro di circa 21 anni. Questo evento innesca una sfida contro il tempo: da una parte c’è chi si sforza di scongiurare errori e sopravvivere a se stesso, dall’altra chi s’impegna a ripetere l’esperimento in nome di una conoscenza superiore.
Kage Baker, scomparsa nel 2010 per un male incurabile, prima di lasciarci ha avuto modo di produrre un vasto corpo di opere incentrate sulla sua creazione di maggior successo: la Dr. Zeus Inc., una multinazionale del futuro che ha costruito il proprio dominio commerciale sulla tecnologia dei viaggi nel tempo e controlla il passato attraverso le proprie legioni di cyborg immortali. Mendoza è uno di questi cyborg e il ciclo della Compagnia del tempo narra le avventure sue e dei suoi colleghi, a partire da La Compagnia del tempo (The Garden of Iden, 1997, trad. Cecilia Scerbanenco, Mondadori, Urania, 2002) e per altri 8 romanzi e 2 raccolte di racconti.
Una delle opere di maggior successo degli ultimi anni è il romanzo d’esordio di Audrey Niffenegger: La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo (The Time Traveler’s Wife, 2003, trad. Katia Bagnoli, Mondadori, 2006) ha venduto più di due milioni e mezzo di copie in giro per il mondo e ispirato un film di successo di Robert Schwentke, dopo che al progetto erano stati associati i nomi di grandi registi come Spielberg, Fincher e Van Sant. Se non c’è dubbio che l’ottima riuscita della storia sia legata ai suoi risvolti sentimentali, altrettanto fermamente mi sento di difendere l’idea che la sua originalità sia motivata dall’adozione di una prospettiva fantascientifica. Quella di Audrey Niffenegger è una fantascienza astratta dal suo contesto specifico, ridotta all’essenza del suo immaginario di riferimento e applicata a una dimensione intimista, ma sempre capace di fare al meglio ciò per cui è nata, anche alle prese con una materia insolita, anche agli occhi di lettori non — ancora — necessariamente appassionati di questo genere.
Più scanzonata e dirompente è invece Rabbia. Una biografia orale di Buster Casey (Rant, 2007, trad. Matteo Colombo, Mondadori, 2008) in cui, tra paradossi e ambiguità, Chuck Palahniuk amalgama elementi derivati dal cyberpunk, dall’horror e dalla distopia per ricostruire la storia del nemico pubblico n. 1 del governo americano, in un futuro imprecisato ma dietro l’angolo, attraverso i punti di vista delle persone che lo hanno conosciuto. La storia, frammentata e riportata in forma di “biografia orale”, appunto, quasi si trattasse di un documentario, ci lascia intuire cosa può essere successo al protagonista seguendo la trama delle diverse ipotesi fiorite sul suo conto e sul suo destino. Dalla leggenda di essere un immortale figlio di se stesso alla possibilità di essere invece un martire votato al sacrificio per la salvezza di sua madre e dell’umanità intera.
Viaggi nel tempo più tradizionali sono quelli che ritroviamo nel romanzo breve Palinsesto, di Charles Stross (Palimpsest, 2009, trad. Salvatore Proietti, Delos Books, 2010), al secondo premio Hugo nella novella dopo Giungla di cemento (The Concrete Jungle, 2005). Variazione ironica e al contempo tragica e malinconica su un classico del filone: il paradosso del nonno. Stross immagina che gli agenti della potente organizzazione segreta che controlla i secoli e i millenni dell’umanità, la Stasi, vengano sottoposti a un rito di iniziazione che preveda per l'appunto l’eliminazione del proprio nonno. Un assalto frontale alle convenzioni della science fiction, in altri termini. Pierce, il protagonista (e qui ci sentiamo di tracciare in un’equazione la corrispondenza con i modelli: Pierce sta al Manse Everard de La pattuglia del tempo di Poul Anderson come la Stasi sta all’Eternità di Asimov), è uno di questi agenti “incaricati del sacro dovere di salvaguardare la nostra specie dalla tripla minaccia dell’estinzione, dell’obsolescenza trascendente e di un cosmo destinato a sfaldarsi nell’oscurità”. Finché non s’imbatte nelle tracce di una cospirazione volta a sovvertire l’ordine delle cose, strappando alla Stasi la sua oscura egemonia.
Restiamo su Stross, spostandoci però nell’immediato futuro, da cui si dipana la scorribanda generazionale di Accelerando (2005, traduzione di Salvatore Proietti e Flora Staglianò, Armenia, 2007), un lavoro per diversi aspetti paradigmatico della nuova fantascienza: proiettata verso il futuro e allo stesso tempo saldamente ancorata all’attualità (scientifica, tecnologica, socio-politica) e alla storia del genere (per una trattazione sistematica, si veda lo speciale “Il futuro accelerato di Charles Stross” su Delos SF n. 102). Finalista ai più importanti premi del settore, Accelerando riunisce nove racconti usciti sulle pagine della Asimov’s Science Fiction e ha fatto incetta di riconoscimenti, proclamato da più voci come il miglior libro di fantascienza del 2005. Attraverso una trama elaborata come un labirinto ipertestuale, Stross ci accompagna nella società umana del tardo XXI secolo, dopo che l’avvento della Singolarità Tecnologica ha reso l’immortalità fisica alla portata di chiunque. Nanotecnologie, intelligenze artificiali e contatti alieni sono all’ordine del giorno per l’umanità alienata di questo futuro così vicino, eppure così lontano. Trovate affascinanti e geniali si mescolano a visioni oscillanti tra l’incubo e la meraviglia come già succedeva neL’alba del disastro (Iron Sunrise, 2004, trad. Salvatore Proietti e Flora Staglianò, Armenia, 2008), che riprende lo scenario da space opera e i personaggi di Singularity Sky (2003, inedito in Italia) e porta in scena semidei postumani alle prese con le cospirazioni di una setta nazistoide.
La nuova fantascienza passa da qui.
Un altro punto di vista su una futura società umana della post-scarsità è quello fornito da Walter Jon Williams ne L’Era del Flagello (The Green Leopard Plague, 2003, trad. Franco Forte, Delos Books, 2005). La soluzione dell’annosa piaga della fame nel mondo è il punto di partenza e di arrivo di questo romanzo breve vincitore del premio Nebula. Il mondo che ne è risultato è talmente diverso da quello a cui siamo abituati da apparirci alieno: individui modificati geneticamente, tecnologie di backup della memoria e della personalità, clonazione e nanoingegneria sono parte integrante della quotidianità. Con la conseguenza che l’immortalità è praticamente a portata di mano e la conoscenza (specie del passato) raggiunge un’importanza di stretta attualità. Tra recupero della memoria storica e progressivo scavo psicologico, Williams dipinge uno scenario postumano inedito e convincente.
A proposito di postumanesimo: l’ultimo lavoro di Ted Chiang, la novella Il ciclo di vita degli oggetti software (The Lifecycle of Software Objects, 2010, trad. Francesco Lato, ed. Delos Books, 2011) risente dell’influenza di Egan e riprende il tema dell’intelligenza artificiale per imbastire una parabola filosofica, nella tradizione consolidata di questo autore singolare nel panorama della science fiction contemporanea. Dal suo esordio nel 1990 Chiang ha pubblicato complessivamente solo tredici tra racconti e romanzi brevi, spaziando dalla fantasy alla fantascienza e aggiudicandosi comunque una quantità straordinaria di riconoscimenti. Il ciclo di vita degli oggetti software non fa eccezione, essendosi meritato i premi Hugo e Locus. Vale la pena ricordare in questa sede almeno Storia della tua vita (Story of Your Life, 1998, trad. Roldano Romanelli, ultima ed. nell’antologia Il meglio della SF / II, Mondadori, Urania Millemondi, 2009), premio Nebula e Sturgeon, e Respiro (Exhalation, 2008, trad. Francesco Lato, in Robot n. 58, 2009), premio Hugo, Locus e BSFA.
Torniamo ai viaggi nel tempo con La verità di Robert Reed (Truth, 2008, trad. Salvatore Proietti, Delos Books, 2010). Un’opera inquietante, una spy story che ci porta avanti di qualche anno nel nostro futuro, dove l’America e con lei il mondo intero stanno soccombendo sotto i colpi della guerra in Medio Oriente. E ci sprofonda in un abisso di disperazione, in cui la realtà denudata pone i protagonisti — e noi con loro — di fronte alle conseguenze delle rispettive responsabilità. Oltre le atrocità di Guantanamo e delle carceri irachene, l’orrore dilagante nel mondo ci ricorda che è nella reazione dei governanti e della gente alle minacce più subdole che se ne misura il peso. Sul terreno insidioso della storia, la prossima trappola potrebbe rivelarsi inesorabile. Reed, con la saggezza dello scienziato e la pacatezza del profeta, ci fornisce un monito prezioso per imparare a riconoscere queste trappole ed evitare passi falsi fatali.
Forse proprio per la sua natura intrinsecamente incline alla trasfigurazione, negli ultimi tempi un numero crescente di autori di prima grandezza provenienti dal mainstream si è rivolto alla science fiction per costruire un discorso politico sul nostro presente, ma non solo. Pensiamo a lavori come Il complotto contro l’America (The Plot Against America, 2004, trad. Vincenzo Mantovani, Einaudi, 2006) di Philip Roth, vincitore del Sidewise Award per la fiction ucronica, un romanzo di formazione dai toni autobiografici ambientato in un’America alternativa in cui l’aviatore Charles Lindbergh sconfigge Franklin Delano Roosvelt alle Presidenziali del 1940 e, con le sue simpatie filonaziste, conduce il paese all’isolazionismo durante i primi anni della Seconda Guerra Mondiale, adottando in materia di politica interna odiose misure antisemite di chiara ispirazione hitleriana. Roth s’inserisce in un filone che già nel decennio precedente aveva saputo dimostrarsi di successo con Fatherland (1992, trad. Roberta Rambelli, Mondadori, 2000) del britannico Robert Harris, fortemente influenzato dal capolavoro di Philip K. Dick La svastica sul sole (The Man in the High Castle, 1962), forse il più mainstream tra i suoi romanzi di fantascienza. Ancora storia alternativa quella firmata dal premio Pulitzer 2001 Michael Chabon, che ha fatto incetta di premi (Hugo, Nebula, Locus e Sidewise) con Il sindacato dei poliziotti yiddish (The Yiddish Policemen’s Union, 2007, trad. Matteo Colombo, Rizzoli), riscuotendo un consenso pressoché unanime grazie a una straordinaria detective story ambientata tra i ghiacci dell’Alaska, dove una popolosa comunità ebraica deve fare i conti ancora una volta con la storia e con l’odio (per una trattazione più estesa del romanzo rimando al mio Sholem Aleykhem! La storia alternativa dei detective yiddish, pubblicato nel 2011 su Delos SF n. 137). Nel 2007 il Pulitzer per la narrativa è andato invece all’acclamato romanzo post-apocalittico di Cormac McCarthy La strada (The Road, 2006, trad. Martina Testa, Einaudi, 2010), la cui trasposizione cinematografica, realizzata nel 2009 da John Hillcoat con un attore di sicuro richiamo come Viggo Mortensen nel ruolo del protagonista, ha subito una raccapricciante forma di boicottaggio da parte delle case di distribuzione italiane perché ritenuta troppo cupa e deprimente: un rischio commerciale insomma, in un periodo di crisi, oppure semplicemente un attentato alla serenità degli spettatori? La dimostrazione comunque che la fantascienza non ha perso gli artigli, sempre utili quando si tratta di dover squarciare il velo di Maya che forme troppo premurose di controllo dell’opinione pubblica vorrebbero frapporre tra i nostri occhi e la realtà.
E come nel più classico loop temporale chiudiamo allora da dove eravamo partiti, restando sintonizzati sull’impegno politico e sociale, con un romanzo che meriterebbe di essere adottato come testo di narrativa nelle scuole: X di Cory Doctorow si richiama fin dal titolo originale a George Orwell (Little Brother, 2008, trad. Francesco Graziosi, Newton Compton, 2009) e riesce nella duplice impresa di rinnovare la tradizione distopica della fantascienza che ha il suo caposaldo in 1984 (Nineteen Eighty-Four, 1949) e di realizzare un piccolo manuale di resistenza civile per le nuove generazioni. Un lavoro di denuncia, in cui l’autore opera una riscoperta dello spirito della democrazia attraverso lo scavo nelle radici dell’America contemporanea, a partire dalla stagione di contestazione e movimentismo per le libertà civili che dagli anni ’60 in poi ebbe il proprio fulcro a San Francisco. Doctorow gioca riguardosamente con il capolavoro di Orwell, senza il timore di ribaltarne la prospettiva. Il Piccolo Fratello è il diciassettenne Marcus Yallow, già conosciuto come w1n5t0n prima che la sua precedente identità elettronica venisse bruciata. È grazie a Marcus se il Grande Fratello si specchia in una rete di Piccoli Fratelli e Piccole Sorelle come lui e come Ange, perfetta nel ruolo della giovane pasionaria, un tessuto sociale in cui l’autore identifica, attraverso il suo protagonista, gli stessi Stati Uniti d’America. Si tratta di un lavoro sui punti di vista tutt’altro che banale: in un’epoca segnata dalla smaterializzazione dei fronti di guerra e inevitabilmente condizionata dal gioco delle parti, Doctorow ha il coraggio di sollevare il dito e di puntarlo contro chi si crede legittimato dalle circostanze ad abusare del potere che gli è stato conferito. Sono passate diverse generazioni dal Winston Smith di George Orwell, ma Marcus ne sarebbe un degno erede, forse più scapestrato ma sicuramente anche più sveglio e pericoloso del pur coraggioso antenato. A differenza di Winston, Marcus infatti ha imparato che la conoscenza è il vero segreto del potere. E la sua padronanza della tecnologia lo aiuta ad avere la meglio sugli spietati e ottusi tirapiedi di un governo ormai sul punto di degenerare in stato di polizia.
Doctorow ci ricorda una volta di più che la fantascienza è anche questo: denuncia, estrapolazione, impegno. E al suo meglio riesce a trasfigurare con maggiore efficacia di qualsiasi altra letteratura i dilemmi e i problemi del nostro presente.

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