>Articoli
Il principio del futuro: Vittorio Catani e l’epica del dissenso
di Salvatore Proietti

::::MAGAZINE::::

Dall’indignazione distopica all’apertura utopica: nell’epica fantascientifica di Il quinto principio, il ritorno su Urania di Vittorio Catani, un maestro della fantascienza italiana. Visionario, raffinato e duramente politico, il romanzo è non solo un punto d’arrivo ma – speriamo – un punto di ripartenza: per la SF italiana, un’opera cardine.

“La verità, nonostante tutto, esiste”
(Victor Serge, citato in Roberto Saviano,
La bellezza e l’inferno, 2009)

1. Nel segreto della piccola editoria e – grazie al lavoro di promozione di Giuseppe Lippi e Sergio Altieri su Urania – dell’edicola, la fantascienza italiana sta finalmente raggiungendo una continuità indispensabile. Con rare eccezioni, la grande visibilità in libreria e sulle pagine culturali è ancora lontana, ma il crescere della qualità media è palpabile. Nel dicembre 2009, su Urania è uscito Il quinto principio di Vittorio Catani: il respiro del romanzo, pubblicato fuori collana per le dimensioni, è superiore anche per le ambizioni. La SF italiana ha prodotto un’epica.
Se per epica si intende una storia che abbracci un mondo intero, allora Il quinto principio è senz’altro un’epica. A differenza dell’era classica, ora attribuiamo normalmente il termine a opere frammentarie, che puntano alla totalità senza ambire a confermarla nel nome di uno statuto trascendente: viviamo (dovremmo vivere) in un mondo laico, fallibile e perfettibile, dunque è giusto che sia così. Soprattutto, quelle della fantascienza sono sempre più spesso epiche del dissenso: dalla trilogia “alla Dos Passos” di John Brunner (il più diretto modello formale di Catani) a quella marziana di Kim Stanley Robinson (forse, nel profondo, l’opera contemporanea più affine), a Neuromante di Gibson, ai romanzi della Cultura di Banks.
Da Brunner viene la forma della distopia come mosaico mondiale, e una matrice politica che non legge la modernità in termini di decadenza da un ideale precapitalista. Della modernità fanno parte non solo le tare dell’oggi, ma anche gli strumenti d’analisi in grado di indicare vie d’uscita. Da una distopia non lineare, non centrata su un individuo più o meno eroico, può nascere anche l’utopia. Nel Quinto principio, sono globali (e oltre) le dimensioni dell’azione, multipli fili narrativi che convergono, si incrociano o scorrono paralleli senza incontrarsi. Attraverso l’intreccio si approfondiscono l’economia, la politica, la sessualità, il sentimento, l’individualità, le scienze, le tecnologie – a volte isolando un elemento, più spesso facendone interagire uno o più di uno: il laboratorio di Catani è specializzato in sperimentazioni complesse.
Il suo progetto di ricerca, però, non ha una grande concorrenza in Italia. Per tanti (da noi, per alcuni) il filone principale della narrativa contemporanea ha operato una rinuncia eccessiva dichiarando la letterarietà incompatibile con tutto quanto non sia scavo nell’interiorità di un personaggio, una discesa rigorosamente centripeta in un abisso di ineluttabile alienazione che non lasci vie d’uscita esistenziali o collettive. Per questo ideale la postura semiautobiografica non deve lasciare spazio ad altri punti di vista, a una relazione di mutua costitutività fra realismo e simbolismo, a qualunque nozione di trama e (in ogni senso) di azione, a un homo faber in un rapporto interattivo col mondo, al sapere, alla speranza in forme di de-alienazione. Sospettiamo che, così, molte letture di classici moderni sono risultate impoverite, e che anche per questo motivo le diverse coordinate delle letterature degli Stati Uniti hanno ricoperto un ruolo tanto eversivo e conflittuale nella cultura italiana.
Pur senza insistere oltre con l’artiglieria pesante della teoria letteraria (vedere però alle voci: Bachtin, Benjamin, Frye, Gramsci, Jameson, Moretti, Suvin, Williams), non è difficile localizzare il ruolo potenziale e reale della fantascienza proprio in quell’intersezione fra campi del pensiero rifiutata con veemenza da un establishment mosso da rimpianti, spesso inconfessati, verso il passato. Invece, ci sembra difficilmente concepibile, radicalmente invalidata dalle sue stesse premesse, una critica del presente che non voglia assumere una propensione, un’apertura verso il futuro.
Con coerenza e programmaticamente, il “Principio” del titolo lega, fin quasi a identificarli, strumento e obiettivo: una nuova legge naturale e un nuovo inizio sociale, in cui la promessa di una rinascita plausibile è contenuta in nuce nella concretezza cognitiva dell’ipotesi (il metodo scientifico come prefigurazione di una società ragionevole e sostenibile). Considero questo legame fra mezzo e fine, fra cosmologia e antropologia – quasi una trascendenza laica, rigorosamente non metafisica – l’argomento profondo del libro di Catani. Sotto molti punti di vista, Il quinto principio è dunque un rinnovato conte philosophique, che presenta il suo scontro fra “concetti” mettendo al centro la presentazione del suo mondo possibile, non la psicologia di un personaggio. In questo progetto, la fantascienza – per definizione fondata sul world-building come gran parte del fantastico – è il genere ideale.
Segno di ulteriore coerenza è la scelta dell’azione nonlineare di un intrico (con più di un intrigo) postmoderno, con una pluralità di personaggi e punti di vista. Come si sarebbe detto una volta, c’è consonanza fra forma e contenuto: non basta per definire Il quinto principio come un libro importante?

2. Se l’incipit non è una frase fulminante (Neuromante è stato già scritto), molto è contenuto nella prima pagina, un inizio che presenta simultaneamente tanti dei parametri della complessa diversità di questo anno 2043: lavoro, corpo, tecnologia, percezione. Passando dal microtesto al macrotesto, altrettanto articolato è l’intreccio dei novum che investono tre livelli: il corpo (gli innesti cyborg della Protesi Elettronica Mentale, allo stesso tempo la potenzialità di una percezione allargata e la minaccia di un controllo panottico), la società (il regime globale, una cinica distopia non piramidale, a diversi gradi di intensità a seconda delle necessità del mantenimento del consenso), la cosmologia (gli universi paralleli, gli eventi inesplicabili).
Della SF Il quinto principio riprende una molteplicità di sottogeneri e varianti, alternando di conseguenza il ritmo narrativo: dalla action-adventure alla social SF, con momenti di satira e digressioni speculative quasi alla Stapledon. Inevitabile la pioggia enciclopedica di citazioni e allusioni, un’esplorazione metanarrativa equivalente per vastità e profondità a quella promossa dall’intreccio, e già familiare a chi conosce la varietà della narrativa breve di Catani (ne ho parlato su Delos in occasione della pubblicazione dell’antologia L’essenza del futuro), in cinquant’anni di scrittura “dell’impegno”. Brunner e Greg Egan (quello, sardonico e scettico, di Permutation City) sono il centro di gravità ispirativa, ma intorno orbitano Pohl (il manager intrappolato fra i ranghi del futuro proletariato nel più coinvolgente episodio dei Mercanti dello spazio), Simak (i mondi paralleli dell’Anello intorno al sole e la fuga pastorale su Giove di City), Clarke (la ville radieuse di La città e le stelle riletta, con una spruzzata delle Correnti dello spazio di Asimov, come rifugio di una casta di Eloi postindustriali, senza però la patina di innocenza attribuita loro da Wells), Hamilton (negli Irragionevoli c’è più di un’ombra della sua Island of Unreason, riscritta in termini di dissenso anarchico, meno socialdarwinisti) e poi Sturgeon, Dick, Gibson, Huxley
Anche la fantascienza ha le sue ambiguità oltre ai motivi di omaggio. Alla radice della distopia si pone ironicamente anche la Bretton Woods parallela in cui si parla di progettare il consumismo, di idee prese da Astounding e dalla SF, e delle prime teorizzazioni di interfacce fra cervello e circuiti elettrici per il controllo del comportamento. Ma il discorso resta sempre aperto; la PEM – variante della più classica icona cyborg, derivata da quelle teorie – può mettere in crisi i concetti tradizionali di individualità in tanti modi. Dunque, le Gestalt possibili sono sia manipolative, sia liberatorie; nel libro e fuori, ognuno è responsabile delle proprie “letture”.

3. Data la mole del libro, rimandiamo a un’altra occasione la discussione dettagliata di ciascuno della miriade di fili della trama, a cui hanno accennato molte recensioni uscite in rete (per esempio su Fantascienza.com, Intercom e Carta). Il vero protagonista è il mondo, l’edificio collettivo risultante dai singoli vettori: è nella giustapposizione, nella costruzione di tendenze, che ogni elemento acquisisce una valenza, tassello di un mosaico ancora più elaborato per i tanti sviluppi potenziali lasciati nel non-detto. Un narratore più facile ci avrebbe sommerso di dettagli irrilevanti, e il materiale sarebbe stato sufficiente per un ciclo multivolume. Ma questo romanzo di oltre 500 pagine è – cosa rara – incredibilmente economico, e chi lo legge deve usare l’immaginazione per riempire qualche spazio vuoto: la “difficoltà”, talvolta, regala piaceri.
L’assenza di un protagonista centrale è condotta fino in fondo: neppure una figura, sia pur di contorno, è portatrice di una consapevolezza superiore al suo ambiente. Una scelta conseguente, la migliore possibile, per un romanzo che respinge classiche soluzioni individualistiche, figlio dell’“immaginario geopolitico” (il termine è di Fredric Jameson) globale della SF – sociale prima ancora che letterario-fantascientifico – che, da Gibson in poi, rifiuta di immaginare gruppi e persone intrinsecamente innocenti, incorrotte, portatrici di valori oppositivi o alternativi. In questo mondo (come nel nostro) i personaggi sono tutti più o meno contraddittori, figli delle contraddizioni e della negatività del loro (e del nostro) tempo. Con il più negativo di tutti si apre il romanzo, Yarin il finanziere senza scrupoli che punta alla proprietà dell’Antartico per acquisire una posizione semi-monopolista sulle scorte d’acqua del pianeta. Ma chi di controllo ferisce (installando un virus mentale contro un possibile ostacolo) di controllo perisce, e si ritrova privo di memoria in una condizione di schiavitù: dal vertice al fondo della rigida gerarchia sociale, da Eloi a Morlock.
Anche il suo antagonista in passato è stato un’altra persona, appartenente all’elite: difficile e assurdo aspettarsi un eroe classico e a tutto tondo in un pianeta (come – lo abbiamo già detto? – il nostro) in cui l’identità viene costantemente ridefinita, flessibile come il mondo in cui vivono. In comune, così, hanno la necessità di mettere in comunicazione le loro discontinuità intime.
Inizialmente quasi un antagonista dello sgradevole, luciferino e semionnipotente Yarin, Alex per cui l’amnesia e la “retrocessione” sociale sono state un atto di scelta per sperare nella sopravvivenza e un minimo di sicurezza, è un rappresentante dei meno reietti fra i reietti, abitante della città sotterranea ma non proprio al fondo, parte della flebile, sparuta classe media, un poco più garantito rispetto a un sottoproletariato-massa totalmente privo di potere. Da punti di partenza diversi, le circostanze li conducono sulla stessa parte della barricata nell’opposizione al regime.
Fra i membri dell’elite, il principale alleato di Alex è Waldemar, di cui in realtà sappiamo poco: la sua biografia e le sue motivazioni intellettuali restano nell’oscurità. Anche questa ci sembra una scelta coerente: nessuno spazio per leader romantici. Chi cerca una rivoluzione con eroi carismatici e saccenti – un Lenin, un Guevara o il Jubal Harshaw di Heinlein in Straniero in terra straniera – resterà deluso. Al contrario, molte premesse individuali restano nel non detto, come la storia della Odo di Ursula K. Le Guin in The Dispossessed. A Catani interessa più mostrarne le conseguenze, le ripercussioni sull’arena delle interazioni. In questo romanzo, molto del realismo – la psicologia personale come la storia mondiale – è sottolineato dai silenzi.
Insieme, i “grigi” (mai il bianco e nero senza sfumature) di queste tre figure, con le loro meschinità e i loro sorprendenti atti di dignità, delineano un mosaico dell’elite ancora più efficace per la sua frammentarietà.
In posizione intermedia sono personaggi come Manu e Laurì, socialmente “minori” ma non del tutto impotenti, caratterizzati dal senso dei rapporti umani. Se il dominio difende e perpetua il consenso anche attraverso l’uso e il controllo del sesso, in Catani come in Dick la soluzione sentimentale – l’amore e l’amicizia – è quella più forte, almeno per chi può permettersela. Cercando di tirare avanti nella maniera più decorosa, Manu giunge a una scelta scomoda. Altri, come Auro, hanno una verità che cercano di affermare.
Al fondo, Auro e gli altri Irragionevoli sono oppositori confusi, spinti da un’intuizione, un malessere globale, non da una dottrina o un’ideologia ben formata, né sono identificabili con un gruppo sociale ben preciso, con una diversità automaticamente salvifica. L’unica vera cosa comune è, per tutti o quasi, la non appartenenza alla casta dell’elite. Un’alleanza contingente fra una parte dei reietti della terra e qualche insoddisfatto fra i leader: questo è il progetto per un’opposizione globale secondo Catani. C’è anche un altro punto, che vedremo più avanti.
Della piramide sociale è analogo impeccabile la “verticalità” urbanistica, una super-architettura che contrappone le città sotterranee come la Underground New York in cui si svolgono molti climax dell’azione alla luminosa, perfetta Diaspar, la Città Grande aerea, nascosta con dispositivi di occultamento tecnologico e difese armate, gigantesca gated community in cui l’elite cerca di isolarsi e perpetuare la sua presunta vita ideale. Difficile non pensare una versione ampliata della narcisistica Villa Straylight di Neuromante.

4. Già all’inizio, il romanzo è pervaso di presentimenti della fine, di un’armageddon o di un rifiuto più o meno metafisico di una società umana cancerosa e metastatizzata. Del generale, gli Eventi Eccezionali, disastri ecologici o misteri inesplicabili, sembrano essere controparte e letteralizzazione fisica. Ma Il quinto principio resta sempre fantascienza, e non concede spazio alla consolazione delle apocalissi morali. Se il loro ruolo è quello di una sorta di “singolarità” al contrario, marker del raggiungimento di una massa critica della devastazione ecologica, in nessun caso viene presa in considerazione una teoria simile a “Gaia”, il postulato di un’organica armonia olistica esistente nel passato. Anche gli equilibri dinamici hanno un punto di rottura, e il megacapitalismo di Diaspar – con la sua, truffaldina e fin troppo familiare, economia fondata sul debito – ha ormai dimensioni talmente mostruose da raggiungere quel limite. Così, alcuni degli EE sono solo enigmi, altri sembrano estremizzare le tendenze ecodistruttive del dominio globale (la distruzione in Africa, già virtualmente dimenticata dalla geopolitica mondiale), altri ancora sono interpretati come “punizioni” del destino o “ribellioni” del pianeta. Ma nessuna direzione o volontà precisa e univoca è deducibile da questi eventi, né viene ricercata dagli scienziati che li indagano.
Fondamentale, infatti, è il ruolo della ricerca, della scienza, della ragione. Senza idealizzazioni, le vediamo coinvolte nell’intreccio di potere che le determina e le plasma. D’altra parte, la scienza ha un “valore d’uso” incancellabile: a Charles Fort e simili ciarlatani, si riserva solo uno spietato sberleffo. Se per Yarin (il rappresentante dell’elite) è uno strumento da controllare, manipolare, mantenere nel segreto, per Alex (antieroe borghese, che trova il suo vero riscatto nella fiducia riposta nella ragione), Waldemar e altri è occasione di comprensione profonda, apertura verso una salvezza laica che intravede un “altro mondo”, diverso altrettanto terreno del nostro. Intorno alla ricerca scientifica può nascere – come nella più grande, come sempre ambigua, utopia dell’ultimo ventennio di SF, la trilogia marziana di Robinson – una comunità sinceramente costruttiva, portatrice di speranza. Questo lo considero il “messaggio” centrale del romanzo, che condivido. A differenza di tanta cultura “umanistica”, Il quinto principio separa scienza/ragione/modernità dal sistema capitalista: sono legati ora, ma non esiste un motivo per cui debbano necessariamente esserlo. La ricerca e l’attività cognitiva hanno un valore intrinseco che va al di là della volontà del singolo o di un gruppo di potere.

5. Concludiamo con una carrellata su alcuni frammenti di questa opera-multimondo. Leggere Il quinto principio è un’esperienza di discontinuità formale, dall’inizio alla fine, in cui i vorticosi salti di scena e di ritmo aggiungono intensità al tessuto della rabbia. Ci sembrerebbe sbagliato parlarne rimettendo tutto in fila ordinata. La sua efficacia sta anche nella giustapposizione fra letteratura e saggistica (fantastica), che sottolineano le varie trame con una serie di istantanee e di momenti riflessivi: come in Egan, Robinson o Lem, l’attività del pensiero diventa parte del romanzo.
Così, è importante leggere quasi all’inizio un dibattito fra determinismo e volontarismo rivoluzionario, e vederlo rimanere inconclusivo, ad anticipare il finale aperto del romanzo. Mentre restano anche nella mente riferimenti come quelli alla enclave militarizzata nelle Marche, che abbatte lo skybus pieno di clandestini: prima ancora di una presentazione compiuta di Diaspar, vediamo quel modello sociale gerarchico in azione, diffuso e ripetuto su tutto il globo. Nella stessa direzione va l’immagine degli oranghi-cyborg assassini, residuati bellici di guerre passate in un pianeta in cui una conflittualità “a bassa intensità” è normalità inosservata.
Queste snapshot ci preparano a percepire l’avvenuto passaggio (come dice un personaggio) dalla democrazia alla lex mercatoria, dalla certezza del diritto all’arbitrato in cui tutto è contrattualizzato, anche i diritti umani, un ferreo oligopolio che giustifica sé stesso con un lessico a metà fra anarcocapitalismo (in uno dei più deliziosi tocchi satirici, a Città Grande c’è un “boulevard Friedrich A. von Hayek”) e pseudo-utopia tecnocratica alla Alvin Toffler. Il potere statale è rantolante, mentre resta – ferreo – un livello nascosto, un “circuito parallelo del megacapitale”, “misterioso” e “iperuranico”, un mercato più invisibile che mai, un’elite asserragliata in una metropoli segreta. Per gli appartenenti all’elite gli altri sono “umani di serie B”, e loro “more than human”: i ricchi, ormai, si ritengono superesseri che, con cinica ironia, citano il Mondo nuovo di Huxley. Questa elite ha il monopolio della ricerca, e dopo l’Abolizione Scolastica (in favore di “programmi individuali” informatizzati) mantiene solo per sé l’istruzione, “per rendere il sistema irreversibile, blindato. Eterno”.
Il consenso che cerca e riceve è fatto di falsa coscienza (“Dobbiamo abituarci a essere crudeli con la coscienza pulita”) e di mostruose risposte a bisogni elementari. La schiavitù dei lottatori, così, può a volte essere desiderata: puro e semplice sesso SM, ma anche, più prosaicamente, “a volte è l’unico modo per star meglio, avere un ‘lavoro’”.
A pervadere tutto, l’ambivalenza di scienza e tecnologia, dipendenti ovviamente dalle azioni di chi la controlla. Da un lato, l’inquietante riflessione sui server come non-luoghi, dall’altra l’emergere di una “umanità allargata” composta di “semi-robot, androidi, scimmie antromorfizzate, sistemi bio-intelligenti”, che obbligano a una ridefinizione del concetto di diversità.
Sospetterei che la discussione sulla possibilità e impossibilità del vuoto assoluto – possibile in teoria, in pratica impossibile da mantenere a lungo in esistenza – sia anche una messa in scena metaforica dell’auspicio, da parte di Diaspar, di un’umanità definitivamente asservita, trasformata in materiale non più resistente, in un “vuoto” di volontà. Ma appunto quel vuoto non dura, e la ricerca scientifica sa offrire la consapevolezza di un Quinto Principio del disordine, con la sua valenza eversiva per un sistema che cerca a tutti i costi la stabilità.
Alla scienza, così, spetta il ruolo di catalizzatore anche simbolico. Il Quinto Principio non è solo una classica nozione positivista, ma – figlio della scienza postmoderna – anche qualcosa di intrinsecamente ideologico, che incide con forza utopica sulla società. La fuga sul Mondo B non porterà certezze, ma almeno delle possibilità. I segni vanno in entrambe le direzioni: nel presente che conclude il romanzo, esistono almeno due futuri, la ripetizione e il rifiuto dei vecchi errori. Ma comunque la storia, per i dissidenti e anche per i sopravvissuti della Terra originaria, si è riaperta.
Non abbiamo una descrizione di questi nuovi mondi. Non ci dispiacerebbe leggere la loro vicenda, conoscere la loro scienza, i loro affetti, le loro ricerche. Un paio di antichi libri sull’utopia raccomandavano attenzione alle forme d’arte dei mondi utopici. Nel Quinto Principio non ve ne sono, ma d’altra parte ci si ferma proprio nell’attimo della transizione.
È naturalmente giusto così, sotto molti punti di vista. Questo romanzo è pieno di rabbia, anche e soprattutto in quell’incessante ricerca e affermazione della verità scientifica e sociopolitica. Al di là del genere, azzardiamo un’ipotesi, lasciandone l’approfondimento ad altri, o ad altre occasioni. Insieme a Roberto Saviano, l’unico autore contemporaneo paragonabile a Catani per l’energia della sua espressione di rabbia ci sembra Antonio Moresco, per molti aspetti diversissimo. Ma come in Saviano (si veda l’epigrafe), la forza del dissenso è temperata da una fede scettica nella ragione, da quella volontà di sapere, intransigente ma incapace di prevaricazione, a cui ci aveva abituato la lettura di Sciascia.
In chiusura, ci viene in mente che forse la musica del Quinto Principio era stata evocata in un antico racconto di Catani, la bellissima, fragile utopia di La vacanza, racconto del 1986 ora disponibile in rete su Carmilla in cui un chitarrista suonava un pezzo chiamato Eve of Construction, la vigilia della costruzione (ovviamente un’allusione a Eve of Destruction, la classica canzone anti-guerra nucleare di Barry McGuire). A Catani e al resto della SF italiana spetta ora il compito di raccontarci il testo della canzone, trasportandoci oltre, dentro la costruzione e in altri concerti, nel giorno dopo la rivoluzione. Nulla di meno ci impone una pietra miliare come Il quinto principio.