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Scuola, precariato e percezione del futuro

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Fernando Fazzari anticipa in questo articolo la sua prossima inchiesta sullo stato della scuola italiana alla luce della recente riforma, analizzando gli effetti della precarietà e il suo contributo nel plasmare il nostro senso del futuro.

A causa della riorganizzazione formativa con le conseguenti riduzioni dell’offerta didattica, la Riforma Gelmini è stata contestata fin dal 2008, anno delle leggi 133 e 169, basi dell’impianto legislativo. L’ultimo atto viene registrato con la legge 240/10 del 30 dicembre 2010 in materia di università, entrata in vigore nel mese di gennaio del 2011.

Non è questa la sede per entrare nel particolare del dibattito politico, sociale ed economico che si articola attorno alle imprese della Ministra bresciana, né per ripercorrere i precedenti di tali imprese – filosofie pedagogiche e legislazioni che vengono da lontano, attraversando Ministri/e della (ex?) Pubblica Istruzione e maggioranze di governo di varie matrici. È la sede giusta però per parlare di futuro: l’impatto della scuola e della formazione sulla costruzione dell’avvenire di una nazione non ha certo bisogno di essere dimostrato. La precarietà dei lavoratori del settore e quindi della qualità dell’istruzione s’inserisce alla perfezione nel quadro generale indicato da Zygmunt Bauman nella sua postmodernità liquida; una società fragile, senza il riparo, il conforto e il controllo di liturgie ideologiche, ancora di più costretta all’instabilità e al movimento delle sue molecole costituenti da una crisi economica che, nel nostro Paese, è stata depennata dall’ordine del giorno in favore di altre, personalissime urgenze.

Viene da sé che mettere occhi e orecchie all’interno della scuola non significa solo osservare uno scontro sociale, ma tastare il polso al futuro di un’intera comunità e non di una sola categoria. Per cominciare il nostro viaggio in questa macchina del tempo scassata e con sempre meno pezzi, abbiamo sentito un gruppo d’insegnanti e operatori scolastici nelle provincie di Bologna e Firenze che ci hanno fornito elementi per la descrizione generale della questione, in grande maggioranza in sintonia tra essi.

La strada verso l’insegnamento è lunga e tortuosa. Si comincia spesso a percorrere su treni e autobus da pendolari, “insegnando nei recuperi in scuole private per poi passare alle supplenze e agli incarichi cambiando scuole, classi, volti, colleghi e sistemi”, combattendo guerre tra poveri per i “punti in vendita” nelle tristi battaglie campali delle giornate delle nomine e delle convocazioni. La scuola italiana è un malato cronico di burocrazia su cui la nuova riforma opera, a quanto pare, senza anestesia. Un’accelerazione verso l’encefalogramma piatto che parte dall’insediamento dell’attuale titolare del Ministero, in cui “il numero di alunni per classe è aumentato e le ore diminuite”. Mobilità e flessibilità assumono l’aspetto di cattive ricette che per il lavoro nelle scuole hanno il gusto rancido della discontinuità didattica. Un insegnante precario difficilmente seguirà gli stessi alunni durante il percorso formativo e, senza un progetto di stabilizzazione, viene da sé che la qualità complessiva dell’istruzione schizzerà verso il basso. Una contraddizione in termini per l’on. Gelmini, che nella scuola elementare ha reintrodotto il maestro unico per dare “un punto di riferimento e una guida” alle famiglie degli alunni (Maristella Gelmini sul maestro unico e il tempo pieno).

A osservare la percezione del futuro nelle nostre scuole si ottiene un quadro tutt’altro che roseo. Col passare del tempo le speranze si assottigliano e nel nostro corpo docente, se da una parte si osserva una sorta di rassegnata assuefazione al disastro, dall’altra emerge una ferrea resistenza, nell’accezione più pura del termine: la difesa di un caposaldo dell’ordine democratico. Fra tutte le voci ascoltate, quelle che meglio riassumono le posizioni del gruppo sono quelle di due docenti di lettere del capoluogo toscano.

Il mio futuro è alle spalle, davanti ho quello degli allievi”, racconta Daniela, 49 anni, “e in mente altro non ho che sono un tramite della costruzione del loro scalcinato futuro in questo scalcinato Paese: lo faccio quotidianamente pensando a quella parolaccia che si chiama cultura. Coltivo questa idea fissa che non mi fa amare la scuola e quello che sempre di più diventa – valanghe di pratiche e adempimenti ci cadono addosso – ma mi fa amare il mestiere che faccio e i volti che tutte le mattine ho davanti. Guardandoli cerco di pensare al loro di futuro, e al loro futuro in questo paese. E penso che se riesco a fargli amare una pagina scritta o una poesia, o a far loro venire un barlume di pensiero critico, come dice Borges, avrò contribuito a salvare il mondo”.

Antonio, 35, anni, mette a fuoco un’istantanea chiara, la stessa fotografia che ci hanno mostrato tutte le persone ascoltate: “Ho scelto questo lavoro, come tanti miei colleghi, con convinzione e penso di averlo svolto con passione e dedizione, cercando di impegnarmi sempre per migliorarmi. Le prospettive di stabilizzazione fino a qualche anno fa sembravano realizzarsi, ma ora sembrano lontane se non addirittura irrealizzabili. Si rischia di disperdere un patrimonio di competenze, professionalità e passione cresciuti in diversi anni all’interno della scuola. In queste condizioni, l’umore di noi precari è variabile e passa da momenti ricchi di speranza e impegno, per un lavoro che noi consideriamo importante per la società, a delusione, rabbia, sfiducia. Inoltre c’è da aggiungere che molti di noi hanno superato i trent’anni e quindi non riusciamo a progettare il futuro della vita privata con tranquillità, come un mutuo per casa, i figli, la città in cui vivere o fare investimenti. La politica scolastica degli ultimi anni non incoraggia, perché siamo considerati solo come un peso e un costo da tagliare e quindi subentra un senso di frustrazione. Anche le proteste contro questo governo non hanno sortito risultati e spesso c’è poca unità e consapevolezza per rendere costante ed efficace la lotta e la difesa del posto di lavoro e della qualità della scuola pubblica. Nonostante questo, continuo nel mio lavoro perché il coraggio me lo danno i ragazzi e i risultati che loro riescono ad ottenere. Alla fine di ogni anno mi chiedono se ritornerò. Fino a qualche anno fa li rassicuravo e dicevo che sarei ritornato, anche se un po’ mentivo. Ora non voglio ingannarli e alla fine dell’anno dico di non saperlo e che non dipende da me. Cerco di spiegare, per quello che posso, di chi è la responsabilità. Anche per questo la speranza che mi rimane è quella di continuare a lottare contro le politiche di questo governo che considera la cultura un lusso o uno spreco. Se non s’inverte questa tendenza, il nostro paese non potrà né competere con le società cosiddette avanzate né potrà sperare in una vita sociale più democratica, più libera, più inclusiva, più giusta. Questo dipende anche da noi”.

Voci sincere, poco avvezze al comizio e stanche dei comizianti, che ringraziamo per la loro testimonianza.

* Illustrazione di Francesca Dattilo, Guillotine Concept di Valeria Ulivelli