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Christian Death live, Camaiore (Lucca) 4 febbraio 1990

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Prosegue la carrellata sui concerti che si sono tenuti in Italia in un momento storico che vedeva già decadere la New Wave e affermarsi soprattutto il Dark (o Gothic) e la scena Industrial, insieme a tanti altri sottogeneri. Dopo il 1984, facciamo un salto in avanti, al 1990...

Freddo. L’umidità di un piccolo canale che tuttora costeggia la stretta strada che va verso le montagne. Notte fonda, faccio parte di un piccolo corteo di nerovestiti secondo la moda dark, che cammina lungo il ciglio della strada. Poche vetture ci scorrono intorno, ma nessuna si azzarda a fermarsi: probabilmente siamo uno spettacolo inquietante che emerge dalle tenebre, da cui siamo appena distinguibili. Intorno a me gente con creste elaborate – qualcuno (purtroppo, aggiungo ora) ha disegnato sul cuoio capelluto, sulle tempie rasoiate, una svastica. Tutti indossiamo uno strano mutismo per ricordare che lì, quella sera, si è ritrovata la crema dei gothic italiani. Avevano finito di suonare da poco i Christian Death e sapevo che il nero che avevo respirato quella notte, probabilmente non lo avrei più percepito facilmente. Eravamo un’elite, allora. Eravamo i resti di un’elite che andava a festeggiare la fine ancora lontana della notte in albergo. Eravamo neri, alcuni ubriachi o altro fino all’osso, e la misantropia mista a sintomi oscuramente paranoici – oltre alla stanchezza - si tagliava a fettine.

Non è un brano di un racconto horror. È la fine di una serata che ricorderò, credo, per sempre. I Christian Death di Valor mi avevano appena maciullato a puntino; avevo ascoltato sì e no cinque o sei pezzi del loro repertorio che includeva la loro ultima fatica: il doppio LP, venduto singolarmente, dal titolo All the Love All the Hate. Scenario dell’appuntamento era una discoteca di Camaiore – posta sotto un incrocio stradale – persa nella campagna intorno a Lucca. Il locale si chiamava Superficie 213. Qualche anno fa cambiò brand, trasformato in KamaKama, e mi sembra di aver capito che, in seguito, sia diventato un ritrovo techno molto apprezzato; cosa sia ora, non lo so più.
L’arrivo in quel posto remoto fu difficoltoso, e capire quali persone avrebbero assistito all’evento fu clamorosamente semplice. Vibravo d’emozione, e pensai bene di annaffiare l’attesa con ogni sorta di sostanza alcolica mi venisse messa a disposizione, passando dal vino al gin fino ad aperitivi e corroboranti vari. Il risultato fu una devastazione etilica. Entrai in discoteca totalmente fuori, e riuscii appena a notare il bizzarro arredamento del locale che era composto da vetture prese di peso da uno sfasciacarrozze. Ero all’acme dell’emotività e in quel momento ripassai mentalmente tutta la storia della band.
Christian Death fu un brand inventato dal fondatore del gruppo, l’americano Rozz Williams, nel 1979, in pieno fermento post-punk. Con differenti formazioni succedutesi negli anni i Christian Death divennero sinonimo di dark, di crepuscolare, di cimiteriale, di ricerca del lato oscuro ed esoterico; la loro iconografia sbeffeggiava spudoratamente la cultura cristiana ed evocava sensazioni mortali, a volte lussuriose ma sempre votate a un senso di decadente, saltuariamente addirittura elegante e anticipatore del moderno gusto fetish. Il senso di buio che sapevano evocare era unico, viscoso; si appiccicava sui pensieri e ne permeava ogni poro. La percezione di un mondo occulto si materializzava rapidamente negli amanti del loro sound.
Musica e parole. Ancora una volta.
Analizzare il costrutto artistico dei Christian Death presuppone un ascolto, ma per semplificare si può tranquillamente evocare il loro risvolto fantastico, la loro capacità di richiamare scene di vita interiore che si staccavano dal flusso temporale moderno per veleggiare verso lidi oscuri, dove anime disincarnate lamentavano il distacco dal corpo, dove suggestioni di demoni, mai davvero palesi, sembravano agitarsi non visti sullo sfondo dei sentimenti. Altre suggestioni liriche venivano direttamente dal mondo romantico-decadente (l’album Ashes, del 1985, ne è il perfetto esempio), e il fantasma di Poe aleggiava spesso nei loro testi. Il suono della band, a volte goticamente barocco, poneva in uno stato d’animo sepolcrale, erano lievi spiragli di luce oscura e languida che illuminavano idealismi e mal di vivere, nella pura way of life dei dark di mezzo mondo, di quegli strani anni ‘80. L’evoluzione del loro sound ha toccato, successivamente, prima attimi eccelsi con il lavoro dell’86 Atrocities, poi punte metal, e anche i testi sono divenuti più espliciti, al limite del blasfemo e del volgare (a volte, il volgare è stato oltrepassato nei live successivi della metà anni ’90).
L’influenza che la band ebbe poi dalle nostre parti fu notevole. Tutti coloro che davvero si dichiaravano dark non potevano fare a meno di citare i Christian Death, non potevano non avere riferimenti alla capigliatura di Valor o ai merletti pre-fetish di Gitan DeMone, in puro stile vittoriano, rigorosamente neri. Molti in Italia suonarono come loro e addirittura i romani Petali del Cariglione (ex Carillon del Dolore) furono prodotti nel loro secondo lavoro (IV capitolo, del 1985) da Valor stesso, che catalizzò e accelerò il loro processo di disgregazione non facendo crescere artisticamente la band italiana, curandosi invece soltanto del proprio smalto nero, del proprio look e di sedicenti banali riti di magia nera oltre che, ovviamente, del compenso elargitogli dalla casa discografica. Di fatto, dopo quel disco e quel passaggio di Valor, del gruppo romano non rimasero altro che i ricordi e la promessa mai mantenuta di una fulgida carriera nell’underground italiano. Anche di Valor e compagni al giorno d’oggi non è rimasto molto, se non questa spiccata sensazione dark che si ha tuttora nell’ascolto dei loro dischi migliori. Lasciatemi chiudere questo particolare siparietto con un gustoso aneddoto: concerto di Roma del 1985, Valor si lancia a volo d’angelo sulla platea, fiducioso che il pubblico rimanesse al suo posto per attutire la sua caduta; tutti, invece, si fecero da parte, lasciando a Valor l’unica consapevolezza della durezza del pavimento.
In ogni caso, ritornando ai meriti puramente sonori ed emozionali dei Christian Death, quella continua ricerca di cause e rimandi comuni che lasciavano intravedere una trama sottile ma robusta, che si agita sotto le apparenze del mondo, costituì in me uno dei primi filamenti del futuro Connettivismo; il gusto per l’oscuro, personalissimo nel mio modo di vedere il Movimento, è sicuramente figlio anche di quei suoni, di quelle immagini che i musicisti (certo non così eccelsi nell’uso degli strumenti) hanno lasciato in me.

Nel 1990, quando andai a vedere la band, da tempo era rimasto a guidare il gruppo il solo Valor, un bizzarro australiano che prima si era affiancato a Williams e poi lo aveva spodestato. La sua voce aveva pose teatrali, assai simili a quelle dei Tuxedomoon (vedi la precedente recensione della rubrica).
Quella sera a Camaiore, Valor uscì dai suoi camerini in un’ora prossima alla mezzanotte. Ricordo ancora l’enorme impressione che mi fece quando capii che il suo fisico era mingherlino e che era abbigliato in modo inversamente proporzionale: oltre al corposo chiodo, Valor aveva indosso una tale metalleria da farlo pesare almeno il doppio; inoltre, i suoi capelli erano avvolti – come se costituissero un enorme fazzoletto – intorno alla testa minuta. Accanto a sé aveva altri due personaggi, abbigliamento sulla stessa falsariga, e io ero pericolosamente vicino alle casse quando, senza nessun tedioso o inutile preavviso, iniziò il concerto con un senso di pragmatismo oscuro che mirava soltanto all’essenziale.
Born in a Womb, Died in a Tomb aprì la serata. Fu un delirio. Un delirio… La voce era claustrofobica, le chitarre letteralmente infernali. La mia testa era già poco presente e cominciavo a fluttuare verso un nerume lontano, da cui rimanevo affascinato. I pochi presenti – forse duecento persone - cominciarono a pogare forsennatamente nello stretto locale; il delirio prendeva forme inquietanti e così Valor continuò con Baptised in Fire, I Hate You, Love Don’t Bring Me Down, Woman to Mother Earth, Children of the Volley, Kneel Down
Il volume sonoro era impossibile, troppo alto e io troppo vicino alle casse. Ubriaco oltre il lecito ero in balia delle onde sonore, mi agitavo, avevo gli occhi chiusi; così, mi lasciai rapire da uno stridio di cancello che si apriva sotto di me, su un baratro impossibile, nero, vertiginoso, profondo quanto l’eternità. Valor mi fece da anfitrione e m’illustrò tutte le possibili varietà di nero (qualcuno ha provato una sensazione analoga leggendo il duello tra Lindsay e Constantine nella Matrice spezzata di Bruce Sterling?). L’ultima sensazione intelligibile che riconobbi fu il caos sonoro – che riuscivo ancora a discernere – che sembrava letteralmente spostarmi il cervello nella scatola cranica, mettendolo in corto e originando, così, scosse d’elettrolisi sulla lingua. L’istante successivo mi ritrovai completamente steso sul fondo di quel baratro da non volerne più riemergere. Preso dal pogare senza sosta stoppai inavvertitamente la registrazione con il walkman e, incoerentemente, rimandai indietro il nastro così, come se volessi ricominciare l’esperienza daccapo, perdendo però per sempre quegli splendidi minuti iniziali. Riavviai il tasto rec a frittata fatta.
A quel punto ero perso. Chi era con me ebbe la pietà di raccogliermi e di portarmi fuori da quell’inferno, perché ero intento a prendere a calci le vetture lì accatastate e a dar testate addosso alle colonne della discoteca. Quel flash oscuro si protrasse nei mesi successivi: la mia psiche rimase ferma per un po’ a quella serata.

Il resto del concerto, a quanto mi hanno raccontato e a quanto ho poi sentito dalla mia registrazione, fu quasi tutto un monologo oratorio di Valor che, evidentemente, si era stufato di suonare; si mise a fare un sermone sul fatto che lui non era un nazi e fece anche notare che la vita ha un valore inestimabile, che la sopravvivenza è necessaria perché assicura la possibilità di crescere, di evolversi. Gli piaceva molto il whisky, così disse. Il pubblico rumoreggiava parecchio spazientito.

Prima che cominciasse a parlare, mentre cadevo nel baratro, la mia ammirazione per Valor toccò l’apice. Per i curiosi, su YouTube esiste un filmato che illustra l’inizio del concerto.

La pagina della band su Wikipedia è qui.